La chiusura di un cerchio. Dave Chandler, storico chitarrista dei Saint Vitus, ha presentato in questi termini il nuovo album della sua band ““ il nono prodotto nel corso di una carriera quanto mai travagliata, iniziata esattamente quarant’anni fa. Tutto era cominciato con un lavoro che, neanche a farlo apposta, era anch’esso privo di titolo: era il lontanissimo 1984.
Da allora di acqua sotto i ponti ne è passata: il gruppo si è sciolto e ricostituito molteplici volte, plasmando il proprio aspetto sulla base delle caratteristiche di pochi componenti a dir poco interscambiabili. E la porta scorrevole sembra ancora non volersi fermare: dopo aver salutato per sempre il batterista Armando Acosta (morto nel 2010) e lo sfortunato bassista Mark Adams, costretto alla pensione anticipata dal morbo di Parkinson, Chandler ha recentemente riallacciato i rapporti con Scott Reagers, amico di vecchia data e cantante originale del quartetto californiano.
Una scelta quasi obbligata, visti gli impegni di Scott “‘Wino’ Weinrich al fianco dei suoi Obsessed. Un ripiego, quindi? Assolutamente no: forti di una sezione ritmica rinnovata ““ dietro le pelli c’è Henry Vasquez, mentre alle quattro corde c’è l’espertissimo Patrick Bruders (Goatwhore, Down e Crowbar ““ che curriculum!) – i Saint Vitus realizzano una prova incredibilmente convincente.
Ciò che affascina davvero di questi solidissimi quarantuno minuti di sano, vecchio doom metal è la spontaneità , messa in risalto da una qualità di registrazione da presa diretta. Al diavolo ogni forma di ritocco e post-produzione: Dave Chandler e colleghi sembrano muoversi con estrema facilità in questa torbida palude sabbathiana, senza avvertire il peso di una musica che di leggero non ha nulla o quasi.
A tirarci fuori dall’oscurità più fitta vi sono le suggestive melodie disegnate dalla voce di Reagers: degne di nota le sue performance nella cavalcata motörheadiana “Bloodshed” e nella crepuscolare “A Prelude To”…”, nella quale si avverte persino qualche eco dei Doors. Due episodi che, insieme al furioso minuto e mezzo hardcore di “Useless”, rappresentano una piccola inversione di marcia.
Il resto della strada viene infatti percorso a bordo di un carro armato che va alla velocità di un bradipo: vi bastino “Remains”, “Hour Glass” e “Wormhole” per ricordarvi del ruolo imprescindibile che hanno giocato i Saint Vitus nell’evoluzione del doom. Il cerchio si è chiuso? Se lo stato di salute è questo, speriamo possa riaprirsi il più presto possibile.
Credit Foto: Jessy Lotti