Tanti anni che scrivo di musica, tantissi anni che ascolto musica, eppure mi capita ancora di cadere nella rigidità , che invece, per chi si occupa di “parlare” di musica è davvero un peccato mortale. Ai primi due ascolti di questo album dei Divine Comedy mi sono chiesto cosa fosse saltato in mente a Neil Hannon. Il mio idolo, quello che ha scritto vere e proprie poesie chamber pop mi sembrava che si fosse messo a pasticciare con i synth.

Chi pasticciava ero io.

Non è un terreno sconosciuto quello del synth-pop per Neil, che da bambino adorava la new wave e le band pop che vedeva a “Top Of The Pops”. Ecco che quello che a me pareva un viaggio in un territorio sconosciuto per lui era invece una ripresa di sensazioni e sonorità  familiari e amate. Il delizioso impianto melodico che conosciamo e riconosciamo da sempre nella creatura di Neil Hannon non manca, ma questa volta accanto alla strada consueta compare anche un binario parallelo in cui gli anni ’80 e gente come Pet Shop Boys, Bowie e Kraftwerk fanno la loro comparsa e a tratti non sono neanche così rassicuranti.

Non è sempre allegro e piacevole, infatti, il mondo dipinto da “Office Politics”. Una realtà  che guarda indietro, ad anni in cui la tecnologia non   era così opprimente e i telefoni avevano ancora i fili e a una società  in cui un presidente a nome Donald Trump era semplicemente una battuta di pessimo gusto. Neil Hannon guarda con rimpianto a quei tempi, si mostra preoccupato ma anche stravagante e deliziosamente nostalgico: tutto queste sensazioni le mette nei suoi testi ma anche nella musica, perchè per lui parole e suoni sono sempre collegati e vanno di pari passo.

Sicuramente questo è un disco ambizioso, ricco, ricchissimo di spunti e variegato. Il ritmo, forse come non mai, la fa da padrone fin da “Queuejumper” che ci rimanda a Paul Simon, ma come non rimanere basiti di fronte a “Infernal Machines” che incalza, plasticosa, oscura e acida, con questo pseudo organetto che da un tocco assurdo quasi glam o alla voce robotica in “Psychological Evaluation” che viaggia su un precevolissimo lavoro ritmico. Ma poi ecco un funk quasi alla Prince che però incontra le morbidezze classiche del nostro Neil e dolcezze beatlesiane in “Absolutely Obsolete” o ancora il folletto di Minneapolis che fa capolino nella magnifica ballata synth (così sobria e delicata) di “A Feather In Your Cap” (molto anni ’80). Ma non finisce qui, perchè la passione per il cinema del nostro emerge in un gioiellino jazzato come “You’ll nver Work In This Town Again”, adatta a un noir metropolitano. Non manca nemmeno, accanto a un lato cinematografico, anche quello più teatrale, basti ascoltare “I’m A Stranger Here” o “Opportunity’ Knox”. Nel finale il disco ci riconsegna quel Neil che conosciamo bene e apprezziamo da sempre, quello con le melodie ariose e arrangiate con gusto (molto morriconiana “When The Working Day Is Done”), ma guai a dimenticare quel gioiello chamber pop che è “Norman and Norma”.

Dopo tutto quello che vi ho detto, potremmo non considerarlo come un un gran bel disco, provocatorio e eclettico? Non ha paura di mettersi in gioco il buon Neil e vince una partita tutt’altro che scontata. Genio. Punto e basta.