di Fabio Campetti

Torna a farsi vedere dalle nostre parti, in questo inizio d’estate infuocato, anche Kurt Vile con i suoi Violators, diciamo che passa spesso da noi e negli anni si è presentato in più set diversi: il suo ultimo disco “Bottle in It” è del 2018 ed è addirittura il settimo in carriera, anzi l’ottavo, considerando quello in coabitazione con Courtney Barnett, per non dimenticare i primi due a nome War on drugs (di cui è stato fondatore / collaboratore), insomma uno che si è dato da fare, siamo quasi nell’ottica di un disco all’anno. Mi verrebbe da dire: “Per forza, suona sempre la solita canzone dall’inizio alla fine“, lo dico ovviamente con il sorriso sulle labbra, anche se un po’ ci credo per davvero. Diciamo che varia poco e quel suo approccio che passa dai classici come i Velvet Underground o semplicemente dalle cadenze a metà  strada tra Neil Young e i Pavement se le porta sempre dietro.

Fatta questa premessa, se volete negativa (in parte), c’è da dire che il ragazzo funziona e funziona tanto e, quando uno funziona tanto,   beh, vince e in questo caso gli altri devono solo stare zitti. “Se non ti piace la mia roba, l’accetto, dammi un milione e smetto, oppure stai zitto” quindi starò zitto e parlerò della serata.

Dal vivo ripercorre un piccolo ‘best of’ delle sue cose più significative, il folk americano sporcato dal country, dalla psichedelia e dall’indie-rock anni 90′, di fatto la voglia di riscrivere o omaggiare la musica americana con un tocco di personalità ; un’estetica da “new hippie” che è parte fondamentale del successo e della stessa visibilità  che Kurt Veil ha ottenuto in questi anni, tanto da diventare una piccola icona underground; venendo al concerto di stasera sul main stage del Magnolia, nonostante un caldo anomalo, c’è il pubblico delle grandi occasioni, un’ottima affluenza per un artista molto apprezzato e, come dicevo prima, ci sarà  un motivo se lo si trova sempre nei migliori festival around the world.

Per la cronaca, la scaletta passa da “Loading zone” a “Jesus Fever” (che aprono il filotto) da “Check baby” alla quasi title track “Wakin on a pretty day” o alla bellissima “Pretty Pimpin”, seconda nei bis per una conclusiva “Baby’s arms”, che chiude un’oretta e mezza circa di viaggio su qualche route, possibilmente in bianco e nero, con i finestrini rigorosamente abbassati e, sempre e solo, con “la stessa (piacevole) canzone dall’inizio alla fine“.