Ronzii sfrigolanti, cigolii minacciosi e una voce deformata che, rinchiusa in un loop infernale, ripete in continuazione la stessa frase, tra rallentamenti e accelerazioni: The whole thing, I think it’s sick. Gli Slipknot non avrebbero potuto scegliere un’introduzione migliore per far partire il loro album di debutto: l’intera cosa è effettivamente malata. Molto malata. E non è che ci si potesse aspettare nulla di particolarmente diverso da nove individui dal look così stravagante.
Sul finire dello scorso millennio la band di Des Moines riuscì a imporsi all’attenzione pubblica sfoggiando un aspetto degno di un villain da fumetto. Indossare scomodissime tute da operai e maschere di gomma tanto spaventose quanto asfissianti divenne il loro segno distintivo. Una buona trovata per farsi pubblicità in maniera facile facile, ma anche per trasformare i propri concerti in tour de force ai limiti della resistenza umana.
Oggi le cose sono assai cambiate: sul palco gli Slipknot portano costumi fatti su misura e non sembrano soffrire troppo all’interno dei loro sempre più raffinati travestimenti. Nel 1999, invece, non era raro vederli svenire per il caldo emanato dai tessuti sintetici di quelle orrende trappole di stoffa rossa spacciate per divise da lavoro ““ che, tra le altre cose, non abbandonavano neanche in estate. O vomitare per le terribili emicranie causate dal puzzo insopportabile della plastica che gli si scioglieva sul viso.
Tormenti indescrivibili insomma, ai quali questi nove esagitati provavano a far fronte in un modo alquanto singolare: massacrandosi di botte a vicenda davanti agli spettatori. Spintoni, pugni, calci, lanci di mazze da baseball: valvole di sfogo in pieno stile Fight Club che finirono per diventare un’abitudine in grado di far letteralmente impazzire gli spettatori, deliziati dalla visione di un simile casino apparentemente privo di motivi.
Giusto per citare un altro gruppo che ha fatto del camuffamento il suo punto di forza ““ i Kiss ““ un’esibizione dal vivo degli Slipknot degli albori non era null’altro che uno “Psycho Circus”. Un circo depravato di brutalità e terrorismo sonoro. Un enorme incubo collettivo popolato da zombie con i dreadlock verdi, maiali, pagliacci, giullari, demoni giapponesi, burattini alla Pinocchio, assassini dagli occhi spiritati, sadomasochisti pieni di chiodi in testa e sopravvissuti a un olocausto nucleare.
Davvero poca roba comunque rispetto ai livelli di degenerazione raggiunti da un album che, a distanza di ben vent’anni dalla sua uscita, continua a essere un ammasso di confusione, odio e violenza che ripugna e attrae allo stesso tempo. Complice l’eccellente lavoro svolto dal padrino del nu metal Ross Robinson in fase di produzione, la band si presentò al mondo forte di un’idea nuova e temeraria di crossover: un miscuglio denso e putrido nato dall’incontro tra il disagio farneticante dei Korn, il percussionismo tribale dei Sepultura e tutta un’altra serie di frattaglie stilistiche pescate qua e là dall’enorme calderone dei generi più in voga nell’ultima metà degli anni ’90: rap, industrial, drum and bass ed elettronica, oltre naturalmente a rigurgiti thrash e death provenienti dalle precedenti esperienze musicali maturate dai nove.
Quindici brani (più una bonus track fantasma, l’hardcoreggiante “Eeyore”) per quindici macigni di rabbia ostentatissima ma reale. E proprio perchè reale, capace di lasciare un segno indelebile nell’ascoltatore. Come ieri, come oggi, come sempre (che è pure il titolo di una canzone di Toto Cutugno): Here comes the pain!
Slipknot ““ “Slipknot”
Data di pubblicazione: 29 giugno 1999
Tracce: 15
Lunghezza: 60:26
Etichetta: Roadrunner
Produttore: Ross Robinson, Slipknot
Tracklist:
1. 742617000027
2. (sic)
3. Eyeless
4. Wait And Bleed
5. Surfacing
6. Spit It Out
7. Tattered & Torn
8. Frail Limb Nursery
9. Purity
10. Liberate
11. Prosthetics
12. No Life
13. Diluted
14. Only One
15. Scissors
16. Eeyore (bonus track)