di Enrico Sciarrone
Quando ho visto Ian Mc Culloch invitare il pubblico, rigorosamente seduto, ad assieparsi sotto al palco quasi a cercarne il contatto e il calore e poi a scambiare amabilmente battute e commenti su svariati argomenti, ho pensato dove fosse finito il Mc Culloch così pieno di se’, scontroso, lunatico di cui le cronache hanno sempre riferito. Come se avesse fatto propria la consapevolezza, acquisita con l’esperienza, che uscire da un clichè comportamentale molto in voga tra gli artisti negli anni ’80, fatto rigorosamente di atteggiamenti precostituiti, potesse essere necessario complemento per il proseguio del progetto Echo & Bunnymen alle soglie del 2020, in cui comunque la proposta musicale rimane centrale (a prescindere dal carattere del personaggio).
Recentemente, nel presentare il suo ultimo lavoro discografico ” The Stars, The Oceans & The Moon”, performato nella sua quasi interezza lunedì sera a Rimini nell’ambito del festival “Percuotere la Mente” nella suggestiva location della Corte degli Agostiniani, Ian Mc Culloch riassumeva in modo lapidario i principi ispiratori del progetto, affermando che non si trattava affatto della classica operazione commerciale da greatest hits, quanto di un esigenza assolutamente personale di “curare e migliorare” le canzoni che hanno maggiormente segnato il percorso musicale degli Echo & Bunnymen. D’altronde cosa altro ancora avrebbe da dimostrare il nostro Ian e la sua band nata agli albori degli anni 80 sotto una chiara influenza beatlesiana, protagonista assoluta della new wave inglese, capace di superare indenne la selezione naturale nel passaggio generazionale con gli anni ’90 e rimanere, brillantemente, sulla cresta dell’onda fino ad oggi. Si perchè, a differenza di altri protagonisti dell’epoca, la storia degli Echo & Bunnymen ha avuto una sua continuità , seppur travagliata costellata da lutti ( l’originario batterista Pete de Freitas) temporanee e definitive dipartite (lo stesso Mc Culloch per qualche anno, Il bassista Les Pattinson) e da passi falsi musicali, ma sempre con uno straordinario spirito poliedrico, atto sempre a non rimanere mai musicalmente ancorati ad un genere specifico (per loro si parla di post punk che vuol dire tutto e il contrario di tutto). Si parte con le atmosfere tetre e cupe dei primi due album “Crocodiles” (1980) e “Heaven up here” (1981), per passare alla psichedelia più oscura dell’album “Porcupine” (1983), l’intimità acustica di “Ocean Rain”(1984 ) per poi virare al pop degli album (non memorabili come i precedenti ) della riunificazione nel 97 come “Evergreen”, sino al ritorno ad un sound più elettrico ed energico che possiamo ritrovare nei recenti “Siberia ” (2005) e “Meteorites”(2014 ).
Ma è soprattutto l’ultimo lavoro, sopracitato, di rielaborazione e rivisitazione dei classici, a far da motore alla performance sul palco di Rimini dove Ian e il compagno e storico fondatore Will Sergeant (vero guitar hero) con la loro nuova band si sono immersi nello splendore del loro passato e in una apnea di quasi due ore hanno regalato perle, piene di intensità emotiva, rigorosamente risalenti ai loro gloriosi esordi ignorando quasi totalmente la recente produzione (solo un paio di episodi fine anni novanta “Nothing lasts…” Rust ” e l’inedito” Somnumbulist” ).
C’ era quasi tutto quel che ci si poteva aspettare dagli Echo, i primi bagliori con “Going up”, “Rescue”, “Villiers Terrace”, “Do it clean”, l’incedere di “Over the wall”, “Never stop” ma soprattutto i grandi classici ,come “Seven seas”, “Killing Moon”, “The Cutter”, “Lips like sugar” e “Ocean rain “. Il tutto performato impeccabilmente , senza sbavature, da una band rodata, sotto lo sguardo rilassato e ben disposto di un “amabile” Ian McCulloch. Di più non si poteva.