Il progetto Bon Iver era nato come l’espressione non di un leader all’interno di un progetto condiviso, ma come progetto cantautorale. Un cantautorato destrutturato, figlio di una sensibilità ipermodernista, folksfrangiato e intimamente cangiante, che si nutriva di intuizioni oblique, che celava in sè sagome formicolanti in una penombra innevata, desiderose di trovare una luce seppur fioca, un fuoco seppur flebile in un inverno personale e cosmico.
Il secondo atto, “Bon Iver, Bon Iver” vedeva il progetto espandersi, raccogliere e accogliere altri musicisti, e così la musica si stratificava, emergendo in nuove impensabili colorazioni fuori dalla coltre boreale, in direzione di una tenue primavera, timida eppure per certi versi roboante, nel suo farsi strada in una nuova pelle e in un nuovo corpo musicale.
“22, A Million”, terzogenito di Justin Vernon e soci, ha rappresentato la transizione, non nel senso di un disco di transizione, perchè non si può parlare di un lavoro incompleto. Stiamo parlando di un momento che è stato contraddistinto da una mutazione che oggi ci appare più che mai irreversibile: la “contraffazione” sonora e vocale, l’uso dell’elettronica come “ambiente” per una decostruzione imprevedibile della materia musicale, l’esplorazione dell’idea di glitch, disturbo, errore e dell’idea di loop digitale, la creazione di una bislacca simbologia visiva come misterioso e misterico gioco semantico, o come, dall’altra parte, riflesso di una spiritualità tipica di chi non cerca una meta, ma vuole godersi un viaggio, creare il percorso del proprio viaggio, essere il proprio viaggio: un conduttore di vibrazioni fragilissime, un intercettatore di frammenti invincibili d’anima, riflettenti una curiosità mai doma, con la speranza in un angolo, con la malinconia nell’altro.
Quello d(e)i Bon Iver è un cuore palpitante d’albe mancate, un respiro profondissimo in una foresta dove nessuno può ascoltarlo, ma è nell’aria: giunge infine serpeggiando, si fa strada tra le ramificazioni di una realtà virtuale insondabile e corruttrice, si erge con garbata imperiosità come una quercia fatata sul terreno di una introspettività dilagante, che tutto infetta e tutto guarisce.
E dunque, il varco creato con “22, A Million” diviene un portale: il passaggio è stato completato, il folk reinventato, diventato una sorta di spiritualissima folktronica, oggi è un soul biancostratificatoe/o digitalizzatoche non può essere imitato o riprodotto da altri. L’uso delle stratificazioni, degli esperimenti e dell’elettronica di per sè non è un aspetto originale, nella musica di oggi: è l’uso che viene fatto di questi artifici, il risultato complessivo, il gusto, l’aura metafisica, che contribuisce a rendere originale il suono in questione. E così Il quadro si fa sempre più astrattista,nelle immagini, direzioni e intenzioni evocate dalle parole, e così nella fuggevolezza degli incastri sonori. Eppure, rispetto al lavoro precedente, ravvediamo la sensazione più vicina di una rivelazione estatica, di una qualche verità quasi totalizzante nel suo fragile sussurrare.
Non c’è un’incarnazione sonora che mi viene in mente al momento, simile a quello che è Bon Iver oggi.
Aggiungiamo: la bellezza di questo nuovo lavoro sta nel fatto che sembrano emergere tutte le anime di quello che è stata la creatura di Justin Vernon, rispecchiandosi l’una nell’altra, assemblando un quadro generale che però non è mera somma di intuizioni passate, di passaggi conosciuti. Ha piuttosto il sapore di un innamoramento che ricorda le sue origini e si riproduce infinitamente in una prateria di barbagli notturni, nel cielo terso di un vespro di fine estate, dopo una tempesta di lacrime.
“i,i” è un disco profondamente immersivo, che richiede un totale abbandono nell’ascolto e che va ascoltato tutto d’un fiato. Ogni brano è una stilla di brina su una superficie mutevole eppure riconoscibile, che sa di pura avanguardia così come di obliqua musicalità pop.
Bon Iver si conferma(no) dunque come una realtà musicali principali del panorama musicale, non solo indipendente, dell’era moderna.