Liam Gallagher, Liam Gallagher ovunque.

Negli ultimi tempi, lo trovi dappertutto: radio, internet, televisione. E non lesina, RKID, di autodefinirsi uno dei (ultimi)  portavalori del rock ‘n’ roll.

E finalmente può parlare la musica, dopo averne sentite di tutte, specie (e che palle…) sul rapporto col fratello Noel: il quale a propria volta prosegue con sicumera nel percorso di sperimentazione (con quali esiti e quale fortuna, non è la sede per parlarne), mentre il più giovane Liam prometteva l’album rock come Dio comanda.

E l’inizio, non è nemmeno male, tutt’altro: “Shockwave” ha i crismi dell’inno, e nella sua semplicità  strutturale ha grip d’eccezione. Ad averne di pezzi così, nonostante tutto. Di più, “One of Us” (che vede il figlio Gene Gallagher ai bongos) ha buon  trasporto emozionale, e porta con sè la bellezza dei grandi pezzi, laddove la dedica o almeno l’ispirazione pare piuttosto ovvia. E mettiamoci pure “Once”, ballad scolastica arricchita dagli archi, in pieno stile lennoniano, che evoca l’immagine di una passeggiata novembrina, parka-muniti, con il mare al nostro fianco.

Ma la storia del rock and roll, Liam?

Perchè già  con “Now That I’ve Found You”, inutile discuterne, siamo  decisamente più in territori pop che rock, per quanto guitar-driven: più Bryan Adams che The Kinks e The Who, per capirsi. Ed è pure un bel  sentire, sia chiaro, tant’è che sarà  designata ad essere il prossimo singolo. Ed anche la successiva “Halo” ha quel piano pimpante che fa tanto Stones e British Invasion, ma non ha certo la ruvidità  e l’imperfezione del rock. Ma pure in questo caso, pezzo di qualità , poco da dire. E fa quasi strano allora vedere nei credits che il Nostro abbia la firma su tutti i pezzi (in collaborazione in gran parte con i fidati Greg Kurstin e, soprattutto, Andrew Wyatt), come se finalmente avesse visto la Luce anche in termini artistico/compositivi, laddove, ed anche qui non se ne può discutere, la sua arma migliore è sempre stata (e sempre sarà ?) quella della presenza scenica, della voce, del carisma da frontman da tempi, ahinoi, andati.

Avanti, e la title track “Why Me? Why Not.” gioca furba su cambi di registro e sul falsetto di Liam, mentre “Be Still”  fa rivedere finalmente un po’ di muscoli e di garra. Sventola fino a questo punto, comunque, la Union Jack tra maybe, come on, shine, forever, e affini. Ma l’aliquota rock  resta davvero al minimo sindacale: “Alright Now” ci riporta, di fatti, con i piedi per terra, tra archi e sonorità  beat d’altre epoche, che si fanno più psichedeliche e Beatlesiane in “Meadow”, col suo incedere liquido e anodino, e Liam che presta ancora il fianco  scoprendo  il suo lato più sensibile.

Sul fatto che sia stato ben studiato a tavolino, quest’album, di dubbi ce ne sono e ce n’erano davvero pochi: anche perchè con tale martellante opera di (auto)promozione, trovarsi di fronte a qualcosa che non lo fosse stato,  avrebbe rappresentato  un autogol clamoroso.

E’ fatto per piacere a, più che per piacere di averlo fatto, pare, a momenti.

Pezzi come “The River”, altrimenti evitabili, sono lì a ricordarlo, con quei continui richiami alla Ma(n-d)Chester che fu, ormai la El Dorado di  ogni mad fer it, prima che “Gone” con la sua chitarra e le trame Morriconiane/Tarantiniane dia aurea maestosità  alla chiusura.

Chiusura che fine vera e propria non è, perchè (nell’edizione deluxe) ci sono ben tre tracce a corollario: “Invisible Sun” con il suo  innesco  di chitarra graffiante e l’animo baggy, la ballata “Misunderstood” trainata dall’acustica (e dall’animo quasi “natalizio”)  per concludere con la primaverile, vivace e super pop “Glimmer”.

Alla fine dei salmi, la mia idea è chiara: “Why Me? Why Not.” è un buon album, più pop che rock, sicuramente; Liam è in forma ed in palla, il resto è tutto studiato, ed eccellentemente realizzato,  intorno a lui. Ma c’è vivacità  e qualità  maggiore rispetto  all’esordio, un gusto retrò ma un buon tentativo di allargare il ventaglio sonoro, sempre con  l’evidente volontà  di mettere sul piatto quello che l’ascoltatore tipo chiedeva.

L’aficionado sarà  quindi  in brodo di giuggiole, Il detrattore ancora più affilato,    l’ascoltatore raziocinante apprezzerà  la costruzione e la resa, senza strapparsi i capelli per quel qualcosa che avrebbe potuto renderlo degno di decisa nota, e che è ben lontano dall’esserci (anche un semplice fil rouge in luogo di questa sorta di contenitore di più cose possibili).  Ancora, sarebbe stato lecito attendersi più grinta e più rock, ma a conti fatti, no, “Why Me? Why Not.” non può assolutamente essere considerato in termini negativi.

Sperando che,  fino al prossimo lavoro, che sia questo da solo o (finalmente, per alcuni)  insieme al fratello, si continui a parlare di più di musica e meno di tutto quello che gravita intorno.