Rieccoli i Keane, dopo il certo non eccezionale “Strangeland” del 2012, ma soprattutto dopo un lungo periodo di silenzio (e di cose soliste) rotto soltanto recentemente con l’annuncio di questo nuovo album e di un imminente tour.
Sentivate la mancanza della band without guitar? Personalmente, non troppo. Finito il britpop ormai vent’anni orsono, di certo non siamo qui a strapparci i capelli per il tramonto di quello che venne ribattezzato post-britpop. Specie con la fine che hanno fatto alcuni gruppi (o si sono eclissati, o sono diventati gli attuali The Killers o, peggio, i Coldplay) che ne costituivano lo zoccolo duro.
Ci provano Tom Chaplin e soci, niente da dire: e gli agganci melodici e la scrittura (che vede ancora Tim Rice-Oxley come prima firma) non sono assolutamente da buttare via. E hanno anche una bella pettinatura moderna, sia in termine squisitamente letterario che più simbolicamente sonoro, con una trazione di synth, che oggi va per la maggiore, a tirare spesso il passo. Ed è tutto meravigliosamente hi-fi.
L’approccio è energetico quanto equilibrato, c’è delicatezza e si cerca arioso trasporto, non si strafà anche se traspare la volontà di incastrare inneschi con trame debitamente magnetiche. Ci riescono a volte (“Love Too Much”, “The Way I Feel”, metti pure “Strange Rooms” col suo docile piano e gli archi), a volte davvero meno, lasciando all’album tutto (specie per “colpa” della sua seconda metà ) un senso di superfluo, come fosse ad essere dimenticato alla prima occasione utile. O nemmeno ascoltato ed approfondito (come ho fatto io, à§a va sans dire) quanto forse si potrebbe e dovrebbe, per il buono che comunque hanno messo sul piatto (ormai tanto) tempo addietro.
Come già a più riprese detto, però, noi siamo degli inguaribili romantici, e dei nostalgici di professione: e allora prendiamo il piacere di ritrovarli in buono stato di salute e con ancora qualcosa da dire. Per lo spessore e la qualità , ci diamo appuntamento alla prossima volta.