Io amo l’Ohibò.

è riuscito in pochissimo tempo a diventare un punto di riferimento granitico per una certa categoria di concerti medio-piccoli, cosa che effettivamente mancava a Milano da qualche anno (sì, sto pensando alla Casa139, a tutto quello che ho sentito lì, e a come tutti siamo stati orfani quando è stata chiusa nel 2010).

Sono le 22 e grazie a quella civilissima abitudine del comunicare il runtime in modo che ci si possa organizzare con criterio (vi prego, fatelo sempre!), mi perdo un pezzettino della spalla, ma riesco a sentire agevolmente tutto il concerto che ho aspettato con abbastanza trepidazione e contentezza.

L’opening è affidato a Joyero, un progetto di Andy Stock, una parte dei Wye Oak: sassofono e basi, intimismo e afonia del povero Andy che lo costringono a un set ristretto. Direi però ben riuscito, viste le condizioni fisiche non certo ottimali.

L’Ohibò ha – in questo periodo di confusione climatica – dei ventilatori che fanno molto club e molto underground, delle luci basse e soffuse e un pubblico gradevole e attento, cosa non scontata ma assolutamente apprezzabile.

Stasera abbiamo lasciato la comfort zone (divano – Netflix – generi di prima necessità  come popcorn fatti in casa e Wi-Fi) per una ragione ben precisa: tutto ma proprio tutto “In A Safe Place” – suonato qui e ora, nell’unica data italiana e a 15 anni di distanza da quella clamorosa uscita per Sub Pop che resta – a mio modestissimo parere – una delle più significative di un certo tipo di raffinatissimo post rock.

Sarò anche una (non più tanto) giovane ragazza sentimentale, ma l’attacco di “Window” con un palco illuminato solo da qualche led e quei rimandi chiarissimi di “Thule” a quella terra incredibile che è l’Islanda (Mùm e Sigur Ros, buongiorno a voi) a me hanno commosso e riempito l’animo di quella dolcissima malinconia che lasciano solo le belle canzoni e il vento freddo quando soffia senza nessun albero a infrangerlo.

Jimmy LaValle ““ californiano di nascita – deve amare o quantomeno aver amato parecchio quell’isola delle contraddizioni, fredda e vulcanica, aspra e dolce, verde ma senza foreste, tanto più che tutto l’album è stato registrato lì, con parecchi contributi di artisti autoctoni, e si sente anche nel live un rimando a posti lontani e rarefatti.

Mentre le canzoni si susseguono penso che probabilmente da qualche parte c’è un disco che invecchia al posto di questo, e più ci penso più mi sembra una spiegazione plausibile, se non l’unica possibile per spiegare quanto 15 anni possano non averlo minimamente intaccato.

Jimmy non è di tante parole, il palco è minimal, le uniche luci sono i led alle loro spalle, ma poco importa, mentre parte “TwentyTwoFourteen”, che è un racconto senza parole di un inizio di autunno, ancora poco freddo ma già  rarefatto.

Sono di parte, e lo so, ma da amante del post rock duro e puro amo molto di più le canzoni non vocalizzate, per quanto “Eastern Glow” sia forse la più bella del concerto e la meglio interpretata.

Mi dovrei ricredere? Probabilmente sì, soprattutto alla luce di questa esecuzione.

“This is the last song” (ovviamente “Moss Mountain Town”): no, Jimmy, non scherziamo. Facciamo che ora ce le risuonate tutte, ancora una volta, e poi ancora una, e poi ancora una.