di And Back Crash

Non si può dire che gli Have a Nice Life soffrano della diffusa urgenza di pubblicare qualsiasi roba esca fuori da una sessione di registrazioni, se questo “Sea of Worry” arriva a distanza di 6 anni dal precedente “The Unnatural World” e a quasi 12 dall’acclamato esordio di “Deathconsciousness”. Nel frattempo il duo del Connecticut, la cui fama ha visto una lenta ma costante crescita nei circuiti alternativi, ha cercato di svincolarsi dall’imbuto shoegaze in cui sembrava condannato, attenuando la coltre di droni e distorsioni e introducendo gradualmente una batteria in luogo della drum-machine, facendo con ciò intuire due cose: che il gruppo è uscito dai garage ed è entrato in un “vero” studio di registrazione, e che è forte la tentazione di diventare una “vera” band e portare la propria opera in giro per locali (e possibilmente qualche soldo sul loro conto in banca). La parte iniziale è paradigmatica di questo nuovo corso: “Sea of Worry”, “Dracula Bells” e “Trespasser W” sono brani compiuti e diretti, infettati di frenesia punk ma nudi al cospetto dei loro standard: le voci sorprendentemente nitide, le chitarre taglienti e una produzione generalmente più pulita avvicinano il sound all’emocore dei college americani, seppur reminescente di certo indie rock dei primi anni 2000, il che garantirà  alcune schiere di fan anche al di fuori delle loro cerchia naturali.

La vera perla è probabilmente “Science Beat”, sorta di “Bloodhail” scesa a patti col disagio, delicato tappeto elettronico ricamato da arpeggi e tenui lamenti in lontananza, sull’incedere di un’ipnotica base ritmica (che finisce per citare, più o meno volontariamente, addiritturai Tears for Fears!). E’, invero, l’unico momento di luce in un lavoro che resta fedele all’auto-assegnatosi titolo di “band più depressa del mondo“. Ciò che segna prepotentemente la distanza col passato è però l’uso più lineare delle voci, i cui complessi ed evocativi intrecci erano forse il loro marchio di fabbrica più riconoscibile.

“Destinos” tenta di replicare la formula del lento jaggernaut che parte sommesso, si inalbera in un austero ritornello, ed esplode in un climax magniloquente, salvo poi acquietarsi e tornarsene da dove era venuto. “Dracula Bells” innesta sul finale un’ambientazione noir che deraglia in un chiassoso simposio di strumenti scordati.

L’influenza noise e industrial rimane marcata, sfruttando l’auge di attenzione seguita alla resurrezione degli Swans e approfondita da una nuova generazione di musicisti (penso al recente successo di critica dei Black Midi e all’ultimo dei Daughters), ma i riferimenti più evidenti sono quelli storici: post-punk dei primi anni ’80 (Joy Division su tutti) e post-rock strumentale degli anni 2000 restano le coordinate maggiormente seguite (e i Godspeed You! Black Emperor sono forse i numi tutelari più importanti nella genesi dell’intero progetto).

L’inevitabile pegno da pagare ai lavori precedenti è saldato nel finale col duetto “Everything We Forget” e “Lords of Tresserhorn”, un lento drone new-age il primo, un cataclisma shoegaze in crescendo il secondo, palesi riferimenti al brano introduttivo e a quello conclusivo del loro fortunato album d’esordio. E’ inevitabile che il fantasma di “Deathconsciousness” aleggi durante tutto il disco e ponga la fatale domanda all’ascoltatore: cosa ne è del suono degli Have a Nice Life? La risposta la contengono implicitamente “Trespasser W” e “Destinos”, qui in una nuova veste (peggiore la prima, migliore la seconda – al netto degli interminabili 5 minuti iniziali) rispetto alle versioni già  pubblicate su “Voids”, raccolta di scarti del primo album: la magia e il miracoloso equilibrio tra necessità  lo-fi e (generosa) ingenuità  che fu raggiunto in quelle sessioni costituirono l’alchimia irripetibile di quel lavoro monolitico. Ad oggi la band si è trasformata in un gruppo rock alternativo e cerca di passare all’incasso, rilasciando un album bifronte, con un piede in un futuro non particolarmente originale, e l’altro ben piantato in quel fantasioso “post-post-punk” da loro inventato e di cui sono oramai riconosciuti venerabili maestri.