Non passerà  di certo alla storia questo “Girl”, secondo album prodotto dalle Girl Ray. Se non altro, servirà  a far comprendere a qualche irriducibile romantico che no, di solo jangle pop non si può campare. Non in questi anni almeno, dominati dal sempre più ambiguo rapporto tra gli universi indie e mainstream, separati ormai da una linea pressochè invisibile, e da un revivalismo “’80s apparentemente inesauribile.

Con queste undici canzoni nuove di zecca, le tre giovanissime londinesi puntano alla svolta. Una svolta gratificante non tanto dal punto di vista artistico, ma di quello commerciale: addio ai suoni vibranti e vintage del power pop, addio alla semplicità  del comprovato schema chitarra-basso-batteria. Restano le curatissime armonie vocali, già  punte di diamante ai tempi del buon esordio “Earl Grey”.

Solo loro riescono a mettersi in salvo da un’ondata di synthpop blando, sterile e stantio, notevole solo nel suo essere dannatamente orecchiabile e radio-friendly. La furbesca trasformazione stilistica delle Girl Ray inibisce quasi totalmente la creatività  di Poppy Hankin, cantante e chitarrista del trio, fastidiosamente melliflua dietro al microfono e praticamente impercettibile alla sei corde.

L’elettronica che prende il sopravvento in brani quali “Keep It Tight”, “Because” e “Friend Like That” spazza via ogni traccia di rock, lasciando sul campo quelli che potrebbero essere gradevoli scarti delle Haim. Le parentesi rap di “Takes Time” sono da dimenticare. Stesso discorso vale per le palesi scopiazzature ritmiche di due classiconi come “Sexual Healing” (Marvin Gaye) e “I Can’t Go for That (No Can Do)” (Hall & Oates), poste rispettivamente in apertura a “Girl” e “Go To The Top”.

Quest’ultima, a esser sinceri, non è però da buttare via: si fa apprezzare per la bella linea melodica disegnata dal flauto. Una caratteristica particolare in un mare di desolante banalità , vitale solo grazie alla buona produzione di Ash Workman. I quaranta minuti di “Girl” sono confezionati bene, a tratti sono persino piacevoli all’ascolto, ma scivolano via dalla memoria non appena sfumano gli ultimi secondi della malinconica “Like The Stars”. L’indie si starà  pure facendo mainstream, ma se continua a farlo con questa debolezza”…