di And Back Crash

Dan Deacon è un barbuto nerd con base a Baltimora che nel giro di qualche album si è imposto come eccezione nel panorama musicale statunitense, ritagliandosi su misura un personalissimo genere a metà  strada fra elettronica e composizione classica, neo-psychedelia e noise pop, sciorinato con un irresistibile understatement da buffone citrullo che santifica feste delle medie e cartoons fanciulleschi. “Mystic Familiar” è la quinta fatica della sua discografia principale, e segue lo spigoloso “Spiderman of the Rings” (2007), l’ottimo e dispersivo “Bromst” (2009), l’ambizioso “America” (2012) e il più prevedibile “Gliss Riffer” (2015). Deacon era peraltro già  attivo a inizio 2000 con alcuni dischetti autoprodotti, e recentemente si è pure cimentato in un paio di colonne sonore, palesando quanto dietro il personaggio bizzarro vi sia un compositore dalla preparazione tecnica non banale e dalla vasta conoscenza musicale.

Talvolta accostata agli Animal Collective, la musica di questo simpatico guitto si basa essenzialmente su un’elettronica rumorista ove si innestano di volta in volta ritornelli synthpop, ritmi futuribili, pause atmosferiche e tripudi corali di voci trattate. L’austera intro composta dalla maestosa “Become a Mountain” e da uno stacco strumentale conduce finalmente al Dan Deacon più cinetico e giocoso, quello di “Sat by a Tree”, quintessenza della sua stravagante indietronica. Gli altri passaggi più orecchiabili, come “Fell Into the Ocean”, sono quelli decisamente meno salienti in un lavoro che guadagna in organicità  rispetto a “Gliss Riffer” e “America” e in sintesi rispetto a “Bromst”. La fuga in avanti è semmai manifesta nella maggior coesione delle partiture sperimentali, “Weeping Birch” e “Bumble Bee Crown King”, un esercizio di stile sugli insegnamenti di Steve Reich e Philip Glass la prima (e hanno ragione da vendere i critici che incasellano Deacon nel post-minimalismo), una sfilacciata jam psichedelica la seconda.

Il cuore dell’album è la suite in quattro movimenti “Arp”, uno dei vertici di questa fase, in particolare il terzo atto “Far from Shore”, che perfeziona la sua peculiare forma di ballata atmosferica sovrastata da nèmbi di droni colorati e propulsa da battiti robotici, prima di imbottire di acido lisergico il suo codazzo di gnomi mongoloidi e scaraventarli in un girotondo nell’iperspazio. L’immagine più ricorrente dei suoi maldestri tentativi di creare emozioni in crescendo è quella di moltitudini di lemmings che si buttano gioiosamente giù da una rupe.

Ciascun brano non rinuncia tuttavia ad attenuare le pretese artistiche e rimanere fedele all’estetica “loser” di cui si fa vanto (cercare un qualsiasi video di un suo concerto per rendersi conto di quanto può ridicolizzarsi un performer per creare un’ipnosi collettiva che sfoci nella farsa). La sensazione è che, se davvero lo volesse, Deacon potrebbe dare alle stampe un capolavoro del genere; l’arrangiamento si è fatto via via più aggraziato, e gli inserti cólti iniziano a integrarsi coerentemente con le strutture pop. Seppur non ancora limato alla perfezione, “Mystic Familiar” è probabilmente il suo miglior lavoro dai tempi di “Bromst”, ed ha fin qui ricevuto critiche lusinghiere da buona parte della critica. L’augurio è che il Nostro continui a non prendersi sul serio e ad elargirci queste deliziose canzoncine in bilico fra avanguardia e dadaismo.

Credit Foto: Shawn Brackbill