“Tutto ciò che volevo, tutto ciò di cui avevo bisogno, è qui tra le mie braccia”…”Allunga le mani e tocca la fede”.
L’essenza, la natura e la consapevolezza della straordinaria perfezione di quest’opera d’arte può essere in buona parte racchiusa dalle parole citate, lemmi intramontabili ed irripetibili la cui scrittura da nessun altro poteva essere adoperata. Perchè? Per una semplice quanto gigantesca ragione: non ce ne sono in giro persone come Martin Gore, David Gahan, Andy Fletcher e, all’epoca di “Violator”, Alan Wilder ma anche, come è ovvio, Vince Clarke. Tuttavia non è questa la sede per note bibliografiche essendo questo piccolo spazio dedicato all’opera numero sette della migliore band di musica elettronica tutt’ora esistente.
Non siete d’accordo? Con la dovuta ed opportuna arroganza vi dico che è impossibile non esserlo, suonerebbe assolutamente blasfemo non ritenere i Mode i padri di quel techno-pop, synth-pop che in molti, in troppi, hanno provato a riprodurre ma che mai nessuno ci è riuscito, neppure accostato. L’immensità del loro sound è talmente unica da non concedere repliche, avvolta com’è da un alone di mistero indecifrabile.
Anche il maestro/amico Anton Corbijn, in occasione della presentazione del docufilm “Spirits in the forest”, ha avuto modo di affermare che “l’essenza dei Depeche Mode è un mistero che non verrà mai svelato”.
“Violator” doveva siglare la definitiva consacrazione – dopo la pubblicazione dell’altro capolavoro “Music for the masses” del 1987 – degli “alieni” di Basildon (i quali nel frattempo sono entrati quest’anno nella Rock and Roll Hall of Fame) quando, invece, si rivelò la perfezione assoluta, la summa di tutto ciò che i Mode avevano fatto uscire prepotentemente dai loro synth imponendo il loro sound: dopo “Violator”, l’universo della musica elettronica non poteva essere più lo stesso. L’insieme delle componenti elettroniche caratterizzanti il sound dei Mode raggiunge ora la purezza assoluta e si porta dietro una evidente e cristallina attualità .
Nove tracce incastonate tra di loro luccicanti come diamanti, sinuose note che si riverberano in una compiuta sequenza perpetua ed emozionale, effetti vocali e sonori dei quali non si può fare a meno, come un allucinogeno, come un’infezione, come solo ed assoluta perfezione. Ed proprio Martin a sintetizzare – in tutti i sensi – questo compimento nella sua perla “Sweetest Perfection”, evocando parole tediose ed essenziali: “The sweetest perfection/To call my own/The slightest correction/Couldn’t finely hone/The sweetest infection/Of body and mind/Sweetest injection/Of any kind”.
Il decollo per l’opera d’arte è previsto sulle piste di drum machine presenti in “World in my eyes”, probabilmente uno dei migliori opening act degli album dei basildoniani. Incalzante, ripetuto, dinamico e profetico: “Let me take you on a trip/Around the world and back/And you won’t have to move/You just sit still”.
Ogni tassello di cui si compone “Violator” non si innesta a caso; ogni episodio è inquadrato in una visione globale nella quale la cura maniacale della produzione di Wilder, insieme al fenomeno Flood, fanno si che ogni nota successiva si lascia dietro una scia della precedente senza soluzione di continuità , come accade negli ultimi due brani. La “Blue Dress” di Martin è una poesia autobiografica scelta per raccontare con deliziosa enfasi ma anche con tanta bonomia una sua ancestrale ossessione mentre le note finali della ghost track (“Interlude#3″) presente nei minuti finali del brano, prelude alle atmosfere purificatrici e conclusive della psichedelica “Clean”.
I fan erano ben abituati alla magnificenza del precedente “Music for the Masses” e, dunque, questo “Violator” si rivelò eccessivo, nella parte positiva del termine laddove la si può trovare, perchè fu talmente elevato il valore del sound accompagnato come sempre dalla magnetica e sensuale voce di Dave. Ci sono esperienze che ogni essere umano dovrebbe provare ed una di queste è quella di farsi trascinare dalla tensione drammatica di “Halo”, potentissima e dal mood cupo e malinconico, insieme al techno-blues di “Policy of truth” la cui struttura non lascia spazio ad imperfezione alcuna. Stesso discorso per il torbido ticchettio della ballata “Waiting For The Night” la quale ha il compito di rappresentare la vena dark, il velluto oscuro del disco.
Le ambientazioni liriche scelte da Gore si alternano e si contrappongono segnando il leitmotiv dell’album incentrato inevitabilmente su duetti afferenti l’amore e l’odio, il desiderio e l’avversione, il potere e l’inettitudine, la moralità e la lascivia, il bene ed il male, il sacro ed il profano… e il religioso, come la lussuria che abbraccia il main riff di matrice blues della controversa “Personal Jesus”, uscita il 29 agosto 1989 dagli studi di Milano.
Il rock-blues ruba la scena ai synth mentre cowboy orchestrati da Anton Corbijn trasformano un inno a Gesù nella planetaria hit dei Depeche Mode. Per scrivere il brano Martin trasse l’ispirazione da un libro che raccontava il matrimonio tra Elvis Presley e Priscilla Ann, dichiarando: “La canzone parla di qualcuno che assume il ruolo di Gesù per qualcun altro, di qualcuno che dà speranza e a cui importa. Ma parla anche del fatto che Elvis era suo marito e mentore e di come questo accada spesso nelle relazioni amorose: in un certo senso, ogni cuore è un Dio. Ma questo non è un modo molto equilibrato di vedere qualcuno, no?”. Ed ecco la lauda: “Reach out and touch faith”.
Brano coverizzatissimo, anche dal grande Johnny Cash che decise di farne una versione acustica un anno prima della sua morte avvenuta nel 2003, dichiarando in una intervista: “Per quanto riguarda Personal Jesus, è probabilmente la canzone gospel più evangelica che io abbia mai registrato. Non so cosa volesse farne colui che l’ha scritta, ma è quello che è”. Interpretazione magistrale del buon vecchio Johnny, probabilmente la miglior cover di “Personal Jesus” ancorchè niente a che vedere, a parer mio, con l’autentica perfezione dell’originale.
Invece, la perfetta linearità delle note, la poesia calda e struggente del manifesto synth-pop per eccellenza della musica mondiale non può subire parole che non siano state dette e, pertanto, si deve necessariamente privilegiare la realtà propria e immutabile delle cose, anteponendo ad ogni cosa il SILENZIO.
Il resto è storia, intorno il nulla, inconfutabilmente Depeche Mode. “Le parole non hanno significato (Words are meaningless) e si possono dimenticare (And forgettable)”.
Enjoy the silence.
Tracce:
1. World In My Eyes
2. Sweetest Perfection
3. Personal Jesus
4. Halo
5. Waiting For The Night
6. Enjoy The Silence
7. Policy Of Truth
8. Blue Dress
9. Clean
Pubblicazione: 19 marzo 1990
Label: Beggars Banquet Records
Durata: 47:02
Dischi: 1
Tracce: 9
Genere: Synth-pop, elettropop
Registrazione: Da maggio 1989 a gennaio 1990 ai Puk Studios in Danimarca e ai Logic Studios di Milano