di Beatrice Bianchi
“Conoscere il presente e mai sperare“, il nuovo album di Jesse The Faccio si apre all’insegna di una sconcertante disillusione, che dal triste buio del mio salotto mi sembra quanto mai profetica, in un periodo di isolamento forzato, con un asteroide ad attenderci per fine aprile, in questo duemialeventi che in pochi mesi ha reso ben chiare le sue brutte intenzioni e la sua maleducazione.
“VERDE”, tuttavia, è un nome un progetto, una chiave di lettura che viene dichiarata fin dal titolo, per quest’album che si pone all’insegna della speranza, una speranza che sembra mancarci e che viene ad assumere un valore quasi totemico, in un prodotto musicale che descrive un percorso interiore di approdo all’agognato numero 57 nella smorfia. Un verde di palingenesi che si elabora in 11 tracce di sapore lo-fi, che ammiccano anche al più puro cantautorato italiano. Di Mac Demarco, Jesse The Faccio ha forse soltanto l’assonanza nel nome, perchè le sue sonorità sembrano discostarsi da qualunque modello prestabilito, andando a raccogliere variegate influenze che ricordano l’estetica anni ’90 dei Jimmy Eat World come gli eroi nostrani Skiantos. Ci aveva conquistati rilasciando la bellezza di quattro singoli, che andavano a segnare quattro punti cardinali, ma è evidente che quest’album si configuri come un concept vecchio stile, da ascoltare in sequenza dal primo all’ultimo brano, in un’evoluzione di sound e di significato.
All’insegna di questo pop punk anni “’90 un po’ statunitense si apre l’album con la title track, “VERDE”, un brano veloce, ritmato che con “DITA GIALLE” e “666” va a creare un trittico in cui racconta la frustrazione generazionale che ci viene da quello stereotipo in cui ci costringiamo a vivere: lo sconforto universale viene articolato nel particolare di un amore descritto da quei luoghi comuni che sono diventati dei must della scena indie italiana – le dita gialle sono precisamente la metonimia di quella serie di difetti che trascendono la bellezza canonica e che vanno a caratterizzare la donna angelo del cantautore tipo dell’ultimo periodo – e nel generale di un disagio di una generazione sfiduciata, svuotata e nichilista, di una speranza che non porta a nessun risultato se non la delusione; un po’ il fil rouge di questa prima parte dell’album.
Cadendo sempre più in basso nel vortice della malinconia e della disillusione, troviamo “YAZ”, che apre comunque uno spiraglio su una fiducia, che deve venire da noi stessi, da un coraggio autoindotto tipo quello “di quando sarai al quarto tatuaggio”. “UNTITLED” apre la strada allo stream of consciousness che tanto contraddistingue l’artista padovano: un fluire continuo di parole che non lasciano spazio al fiato, incalzanti, rimangono sospese in un blocco etereo, in un brano che si conclude con una parte strumentale, che apre la strada a “VERDE PT.2”.
Se proprio le parole sono uno dei punti di forza dell’album, questa traccia se ne priva, 2.50min completamente strumentali che costituiscono un punto di svolta verso la seconda parte dell’LP, più intimistica, profonda, meno chiassosa e arrabbiata. “2011” è un pezzo onirico, una ballata in cui il rapporto con l’altro e con il mondo viene descritto con una lucidità quasi disarmante, una fotografia sulla quotidianità , di cui sottolinea, con una leggerezza che non è mai superficialità , quei disagi di cui è incastonata la vita di ciascuno di noi.
Dopo “AMEN” ritmato e incalzante, in cui le parole si sposano perfettamente con i giri di chitarra e i beat della batteria, “CAVIGLIE” propone un nuovo sound, una canzone d’amore quasi nonsense, che con un susseguirsi di metafore descrive la fragilità di un sentimento travolgente quanto labile.
“NISSAN” è un brano surrealista, un accostamento di immagini incastrate l’una dopo l’altra che vedremmo bene in “Un chien andalou” in puro stile Dalì; si accompagna perfettamente a “TTMB”, l’ultimo brano, in cui riprende l’andamento a flusso di coscienza: le sillabe si incastrano alla perfezione l’una nell’altra come solo anni di Bartezzaghi sulla spiaggia possono insegnare a fare.
Un prodotto bifocale, quindi, che converge nel topic della speranza; malinconico, incazzato, modernista. Un “Tropico del Cancro” della nuova generazione, cresciuta tra le schitarrate punk anni ’90 e i “deliri” filosofici di Battiato, che si coagula quindi in un flusso di parole, di accostamenti ribelli che, nel loro apparire a volta completamente insensati, si piegano ad una moltitudine di interpretazioni personali con la potenza di haiku, diventando quasi universali nel loro essere metaforici e sibillini. Forse mai più che ora (ma in realtà ci serve un po’ sempre), “VERDE”, è l’album che abbiamo bisogno di sentire, nel suo descriverci l’intera parabola emozionale che stiamo vivendo, dal picco di turbamento, di disagio, di disincanto per arrivare alla carica interiore che ci porta ad aprire la finestra e guardare in faccia la vita con una speranza che è fondamentale per affrontare i grandi problemi come le piccole difficoltà della quotidianità .