Ci ho provato.
Ci ho provato e riprovato con questo album dei The Strokes. Ci ho provato perchè anche se gli anni passano la memoria rimane, e io sono di uno di quelli che col loro primo album (ma anche col secondo, dà i) ha fuso Winamp e affini. Li abbiamo visti esplodere, fighi com’erano. E li abbiamo visti (salviamo “First Impressions of Earth”?) fare dei dischi del cazzo che più del cazzo forse è difficile fare. E sono passati qualcosa come tre lustri, mica noccioline.
Li abbiamo visti addentrarsi con alterne fortune in progetti solisti, visti dal vivo tra pregi e difetti, visti influenzare e farsi influenzare. Nato negli 80’s come loro, l’orologio ha girato per me come per i non più giovani ragazzi newyorkesi.
Ci ho provato perchè i primi tre singoli qualcosa in me avevano solleticato, perchè con un veterano come Rick Rubin nella stanza dei bottoni, uno che ha lavorato con tanti di quei pesi massimi da perdere il conto, dai Red Hot Chilli Peppers ai Metallica, passando per Adele e Shakira, per citarne solo alcuni, qualcosa doveva pur succedere.
Ci ho provato, e gli spunti iniziali non hanno deluso: i riff e le trame di “The Adults Are Talking” (per quanto l’innesco riporti inevitabilmente alla mente la loro “I Can’t Win”…) e di “Brooklyn Bridge to Chorus” sono validi eccome, e gli intrecci di chitarra con la voce di Casablancas riusciti. Casablancas la cui scrittura risulta viva ed autentica, con momenti di eccellenza che si alternano ad altri sicuramente meno brillanti. Ma ci sta. E su supporto la voce si esalta ancora, per quanto vocoder e autotune siano lì a dare l’ausilio necessario.
I primi minuti funzionano, già : Rubin sa quando patinare e quando tirare a lucido, la temperanza di Moretti e Fraiture è immarcescibile e non ammette divagazioni o virtuosismi, Valensi e Hammond Jr., seppur minimali nell’approccio, piazzano qualche gustoso arabesco, le melodie e le armonie sono stuzzicanti ed efficaci, il synth fa il resto.
Poi arriva quell’uno-due: “Bad Decisions”/”Eternal Summer”. E per fortuna nei crediti finiscono, doverosamente, Billy Idol e i fratelli Butler (The Psychedelic Furs, per i profani). Perchè l’ispirazione sembra davvero fermarsi lì, con “At The Door” che tratteggia una sorta di afflitto ed anticipato congedo.
E invece no, non finisce qua. Prosegue tra acte manquè, momenti evitabili se non direttamente nenie che superano agilmente i 4 minuti e mezzo, che per una band abituata a fiammate garage sono un’eternità . Bagliori, spessore o profondità al minimo sindacale (il ritornello di “Why Are Sundays So Depressing”, qualcosa di “You’re Not The Same Anymore” che comunque ha tremendamente troppo di dèjà senti), si perde progressivamente quota fino al secondo e finale (definitivo?) commiato di “Ode To The Mets”.
Ci ho provato, e ci ho riprovato anche perchè leggevo qua e là come questo “The New Abnormal” fosse il loro miglior disco da “Room on Fire”. Deo gratias mi verrebbe da dire, per gente che comunque talento aveva dimostrato di averne eccome. E ciononostante, non saprei davvero se metterlo nel podio, fermi i primi due posti: se così fosse, sarebbe davvero perchè in tutti questi anni di concorrenza attorno se ne è creata davvero poca.
Purtroppo, fuori mi chiamo dalla pletora della gente entusiasta per questo nuovo capitolo. Nessuna veste stracciata, figuriamoci se in ginocchio in adorazione. Apprezzo quello che c’è di buono, ma non posso non riconoscere che forse non è più tempo per i The Strokes. E forse non lo è davvero più da un bel po’.
Non una prece, ma forse nemmeno un arrivederci.
Photo by Jason McDonald