L’album “How Did I find Myself” ci aveva riconsegnato la leggendaria band di Steve Wynn in ottima forma, spazzando i dubbi che lecitamente ci si pone di questi tempi quando una band del loro calibro pubblica un disco – il loro quinto – a trent’anni di distanza dallo scioglimento. Lo scorso anno la band californiana aveva confermato con “These Times” di non volere fare sconti sulla qualità del loro prodotto e, per sorprenderci ancora un po’, Wynn & Co. ci avevano infilato quel che basta di elettronica, ispirati da un album del DJ J-Dilla. Il terzo album del nuovo corso quindi era atteso con curiosità : dove ci avrebbe condotto Steve questa volta? Lo si era capito sin dal primo singolo uscito a febbraio, “The Regulator”, un viaggio psichedelico con risvolti jazz di 20 minuti abbondanti, registrato in presa diretta, come del resto gran parte del disco. A tal proposito Wynn afferma che “Tutto quello che abbiamo aggiunto era aria“. Il brano è quindi il frutto di un’improvvisazione, “un microcosmo dell’intero disco” 80 minuti registrati senza interruzioni da dove sono stati estratti anche gli altri 4 brani.
Alla band si è aggiunto ufficialmente Chris Cacavas (tastiere, ex Green on Red, altra band dal peso sostanziale del periodo Paisley), mentre tra gli special guests troviamo Stephen McCarthy – quello che “ha preso un sitar elettrico perchè era la prima volta che lo vedeva” – Marcus Tenney che ha suonato il sassofono e la tromba e Johnny Hott alle percussioni.
“Ti sei sentito invincibile, tutto era possibile, ora non resta che il desiderio” è il concetto dominante di “The Longing”, che con i 7″37″è il brano più breve dell’album, la seconda parte interamente strumentale con il sax di Tenney che spedisce le sue inattese traiettorie sopra linea ipnotica del basso di Mark Wolton (che dalle note di presentazione, in questo album sfoga i suoi amori per la musica Southern-fried) e le manipolazioni elettroniche di Cacavas. Le percussioni di Hott sono il tappeto dove il già citato sitar elettrico di McCarthy sviluppa il tipico suono in un brano dalla psichedelia spinta, brano che trova un’improvvisa accelerata nella parte finale che introduce “Dusting Off The Rust”, il brano più “paisley” con l’abbondante farcitura di fiati e l’armonica di Wynn a sostituire la voce in un pezzo completamente strumentale. “I can hear those ringing bells again” è l’introduzione dello spoken word di The Slowest Rendition”, dieci minuti che si trasformano nel finale dove Wynn, questa volta intonando melodicamente “Keep moving the pieces” forse ci vuol dire che tutto si sta muovendo, che niente sarà uguale a ieri.
La passione di Wynn per il jazz elettrico e quella di Duck per la musica avantgarde europea hanno dato la spinta per superare lo scoglio del classico psich-rock entrando in un territorio musicale del tutto nuovo, almeno per quello che riguarda la band, non certo per gli approcci musicali dei singoli artisti. Un album difficile per chi ama i Dream Syndicate vecchia maniera. Vedremo se questo è solo un episodio, una serata passata a improvvisare con amici talmente bravi che alla fine della session ci si può permettere il lusso, permesso a pochi, di mettere tutto su un disco. Potrebbe invece essere un album che segna un passaggio nella carriera della band, che a questo punto, possiamo tranquillamente definire “agli inizi”.
Credit Foto: Tammy Shine