Mi presento: mi chiamo Manuel, ho appena ascoltato il disco di Claver Gold e Murubutu, “Infernum“, sprofondando sempre più ad ogni traccia tra i gironi dei miei soliloqui (tutti infernali e abitati da bestie feroci, come quelle che solo nella mente si annidano e prolificano), prima d’ora avevo ascoltato pochissimo di entrambi gli artisti sopracitati e sopratutto le memorie del liceo e dei primi anni di Università  non erano e tuttora non sono sufficienti e sufficientemente lucide per potermi definire anche solo un appannato conoscitore dell’universo dantesco.

Di compenso, mi è successo talvolta di citare Dante nel corso di filippiche accese contro amici ancor più rozzi di me – a questo servono, gli amici bruti: a farti sentire quello della compagnia che ha seguito virtute e canoscenza -, durante cene a lume di candela con amori della mia vita ho recitato la parte di Paolo alla mia Francesca di turno tra un occhiolino e un piedino galeotto – elidendo la fine tragica, per fortuna, almeno dal punto di vista prettamente fisico e corporale, mentre sui danni psicologici non mi esprimo – e infine, come tanti altri letterati del mio calibro, ho letto il libro di Dan Brown e il film che n’è stato tratto. Ecco, in virtù di questa ammissione di colpevolezza e di estrema ignoranza (e dovreste essermi ben grati di averla posta come premessa alla selva oscura di vaneggiamenti che segue senza lasciarvi, tra qualche riga, inconsapevolmente impigliati fra i rovi delle mie congetture), le strade che si aprono davanti a voi sono due: quella del saggio risparmiatore di tempo, che certo non intende proseguire nella fuorviante lettura di una tale svendita di fumo, o quella dell’onestà  intellettuale.

Sì, perchè so di essere esattamente al medesimo livello culturale della gran parte dei lettori – offendetevi pure, è giusto – che leggeranno questa recensione arbitraria e assolutamente infondata, e chi mente su tale stato di cose lo fa perchè viviamo, purtroppo, in un mondo in cui la bellezza e la cultura sono diventati suppellettili per sentirci più belli, e non per saperci più forti, e allora ammettere una lacuna – certamente colpevole – ci fa sentire più brutti. Per questo, intasiamo le bacheche e i profili social di frasi di libri mai letti, citazioni di film mai visti, copertine di dischi mai ascoltati ma che pensiamo possa essere cool dire di aver ascoltato per sentirci riconosciuti e accettati tra le file di poeti da blog, registi amatoriali e fini recensori di musica (come me, ad esempio) che fingeranno a loro volta di conoscere a menadito tutta la Divina Commedia dello scibile umano. Insomma, in fondo è un problema sociale, e profondamente umano, tutto questo intellettualismo: ci sentiamo così soli e pieni di crepe da non riuscire a capire che, per colmare quei vuoti, i libri vanno aperti, e non utilizzati per rintuzzare i buchi, come si tapperebbe il foro di un chiodo con lo stucco. Tutto questo per dire che state per leggere – e qui siete arrivate alle vostre Colonne d’Ercole – la recensione di un vostro fratello, figlio di un tempo che non si ricorderà  il mio nome, pieno di citazioni e moralismo per hipster convinti e bambini sperduti. Siete in tempo, ora o mai più: fermatevi.

Bene, se siete ancora qui con me significa che avete scelto la via dell’accettazione dei vostri limiti e che anche voi volete capire quanto ci si possa sentire intellettuali a dire “ho ascoltato l’ultimo disco di Murubutu e Claver Gold sull’Inferno di Dante“. Ecco, la mia risposta è che, a questo giro, rimarrete ben delusi.

Parto da principio, e vi dico che giocare al gioco dei ruoli è divertente solo quando si partecipa tutti ad armi pari: tra hipster navigati, appunto, ci si fa da spalla con guasconeggiante senso di appartenenza, e allora ci si può laureare in canti e in vino con una facilità  disarmante, perchè si è tutti sullo stesso tacito livello di mediocrità . Non funziona, però, quando decidi di giocare a rubamazzetto con un ladro professionista, e sì, la metafora forse non sarà  riuscitissima ma tanto serve a darvi un’idea della sensazione di rapina a cui mi ha costretto l’ascolto di “Infernum“: privato di ogni certezza, svuotato del mio furore di indistruttibile sofista da tastiera, derubato della mia corazza di crepe e abbandonato, solo, con la mia umanità .

Insomma, potevano dircelo subito che Dante fosse solo un pretesto, che nulla avremmo potuto imparare sulla Divina Commedia (o che forse avremmo imparato solo le cose che del testo dantesco contano di più ma meno appaiono, sotterrate da secoli di nozionismo) e che in nessun modo avrei aggiornato il mio arsenale di frasi d’autore con cui stappare la prossima bottiglia di rosso. Potevano dircelo, che ci saremmo trovati davanti non ad un master lampo a buon mercato di italianistica, ma ad un campionario di vita vissuta che ci avrebbe fatto sentire ancora più piccoli, più fragili, più soli nelle nostre finzioni.

Sì, perchè l’ambientazione dantesca, qui, è una scenografia lontana che si affaccia sul palcoscenico della vita, e i personaggi descritti perdono la polvere della memoria per ripresentarsi, in tutta la loro disarmante potenza, davanti agli occhi e alle orecchie dell’ascoltatore: come moderni Bosch, Murubutu e Claver Gold dipingono attraverso immagini sonore non tanto l’inferno di Dante, o l’inferno che sarà , ma l’inferno dei viventi, come direbbe Calvino, che già  è e che formiamo stando insieme, vicini e lontani allo stesso tempo con diabolica umanità . Le undici tracce diventano archetipi che bucano la quarta parte e squassano l’allegoria, portando l’apocalisse nelle parole e presentandoci, con la furia della Verità , il conto dei nostri vizi e delle nostre ombre: la mano dei due parolieri è quella di Virgilio, che nelle tenebre della coscienza accompagna noi, icone di un Dante del III millennio, a scontrarci con gli abusi del nostro potere di piccoli uomini e delle nostre sofferenze di egoistiche vittime che non imparano mai accettarsi come vicendevoli carnefici.

Ed ecco che nella storia di Pier della Vigna si nasconde in piena vista la vita spezzata di tutte le anime salve che non sanno trovare un rifugio alla propria fragilità  nella corsa di una corrida che li vuole tori o matador, e “Caronte” diviene l’alternativa agli abusi della quotidianità  e della normalità  disarmante, verso la via allucinata di un incubo pieno di folletti di vetro. E sì, le mie citazioni deandreiane non sono affatto casuali perchè, di fronte alla laica interpretazione del sogno dantesco offerto dalla premiata coppia, a me viene subito in mente la portata umanizzante della “Buona Novella” di Faber, e per un attimo abbandono la necrofilia insegnatami da una società  che riconosce come meritevoli di lode ed ammirazione solo i suoi morti, che proprio perchè morti possono venir finalmente fregiati con cimiteri di croci sul petto, e mi godo i vivi: anche Murubutu e Claver Gold raccontano gli ultimi, e lo fanno senza la presunzione dei primi della classe – perchè sì, questo era il rischio nel trattare un riferimento così importante come quello scelto dai due rapper -, al punto che in “Minosse” si calano, con coraggio e senza l’ombra di svenimenti improvvisi Dante’s way, nell’inferno dei viventi descrivendo anche i loro, di contrappassi, perchè l’inferno esiste solo per chi ne ha paura.  

In questa antologia di vissuto personale, “Paolo e Francesca” diventano le icone dell’amore che uccide sè stesso e che non sa resistere ai morsi delle ritualità  quotidiane, vivendo nell’attesa del ricordo mentre agonizza e muore, senza perdere la convinzione che sì, distruggersi sia stato meglio che non essersi mai incontrati (ancora De Andrè, ma parafrasato); “Tiade“, invece, è figlia di una società  che la vuole orfana, e che ogni giorno le ricorda che la sua unica colpa sia quella di esserci ed esistere, nel modo e nel posto sbagliato: non c’è salvezza, in questo presente infernale, e l’amore non è più ancora e porto sicuro, ma merce di scambio, motivo di dannazione. Perchè questa è la realtà , anche se sentirsela raccontare fa male: un mondo di disperati sopravvissuti in cui la parte del vinto o del vincitore è assegnata dal caso, laddove non sia intervenuta l’avidità  dell’uomo. E la stessa avidità  tracotante di “Ulisse” diviene appiglio per parlare del mare che non dimentica e di uomini dimenticati, delle rotte verso un’Itaca immaginata da chi non sa più cosa sia casa.

Ma è proprio in questa landa desolata ed arida che Murubutu e Claver Gold lasciano sbocciare il loro disperato germoglio di umanità , laddove l’ora si fa più buia e le fiamme dilaniano ogni alibi: è “Lucifero“, icona del Male, a piangere sulla nostra spalla come un figlio perduto che non dimentica il giorno in cui scappò dal nostro abbraccio di padri e madri immaginate e immaginarie, ma che non riesce a ricordare il perchè non gli fu data occasione di tornare; ed è con l’ardita potenza dell’analogia e della poesia – che non può nè deve cedere il passo all’inibizione della blasfemia – che Lucifero abbraccia la sua croce, mentre con le parole di Gesù Cristolui, traditore dei traditori! – indica noi, novelli Pietro, e ci dice che sa che presto lo tradiremo.

Ecco, credo che sia proprio questa la sensazione che resta alla fine dell’ascolto di “Infernum“, l’ultimo disco di Murubutu e Claver Gold: il ronzio di un tarlo che scava nella testa, che lascia insinuare fra le tue certezze da osteria, fatte di cantautori e Nanni Moretti, la paura di non essere dalla parte dei traditi (che far le vittime è da sempre la parte che meglio riesce, a noi radical chic), ma di sentirti chiamato a giudizio tra le fila dei traditori. E allora succede che, nel mio cervelletto impigrito di intellettualuccio ammaestrato, tutto comincia a farsi chiaro, le nuvole si diradano e la citazione di Calvino si chiude e si schiude, illuminandomi finalmente di una qualche luce paradisiaca per la prima volta in venticinque anni di farneticazioni nozionistiche. Perchè l’inferno dei viventi è quello che è e che ci circonda, e due modi esistono per non soffrirne: accettarlo, fino a diventarne parte, o “cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio”.

E forse, quello che voleva dire il buon Italo, e che cantano in “Infernum”  Calver Gold  e Murubutu, era davvero quello che aveva  già  capito Dante, più di settecento anni fa.