Paul Weller è uno degli uomini simbolo della musica britannica, anzi, nel suo caso si può tranquillamente e senza timore di smentita allargare il cerchio e farlo assurgere a simbolo della cultura inglese, tanto forte è stata la sua impronta dalla seconda metà degli anni ’70 ai giorni nostri.
Proprio per questa sua peculiare inglesità però inevitabilmente il suo nome non è considerato allo stesso modo nel resto del mondo, e non lo era nemmeno ai tempi del massimo splendore ottenuto alla guida dei Jam.
Classe 1958, il cantautore seppe mostrare appena maggiorenne già una personalità incredibile come leader di quel trio in grado di infiammare l’Inghilterra mescolando egregiamente le contemporanee istanze punk alle solide radici legate a gruppi come i Kinks. Weller incarnava perfettamente lo spirito ribelle dei mods, diventandone in presa diretta il più fulgido simbolo di quel periodo di revival e, anche una volta chiusa l’esperienza con i Jam e aperta quella altrettanto fortunata con gli Style Council, lui rimarrà sempre nell’immaginario il Cappuccino Kid, artista poliedrico e sensibile.
Non solo la musica però era al centro del suo percorso, se è vero che in realtà furono soprattutto le sue parole, adagiate su testi ficcanti e legati indissolubilmente alle proprie radici brit a renderlo così popolare e amato in Patria. E l’attaccamento ai propri colori si rese ancora più manifesto quando il Nostro decise di intraprendere a inizio anni ’90, ormai superato le trenta primavere, la carriera solista.
Dopo i primi due album, non del tutto a fuoco soprattutto dal punto di vista musicale, la piena affermazione giunse con “Stanley Road” che, se da noi in Italia ebbe ben poca eco, ci pare giusto tributare al meglio oggi che compie 25 anni. Lo facciamo in virtù della straordinaria portata storica e risonanza commerciale conseguita in UK, in un periodo che già stava iniziando ad essere dominato dal fenomeno del britpop (i cui principali protagonisti, è giusto dirlo, lo tenevano in grandissima considerazione, vedendolo come una sorta di padre putativo). Tutto in questo album profuma d’Albione, a iniziare dall’accattivante art work che ne raffigura l’iconica copertina, opera del designer Peter Blake, già autore dell’immortale idea grafica alla base di “Sgt. Pepper’s…” dei Beatles.
Weller sembra guardare al passato sin dal titolo scelto, che si riferisce alla via in cui era cresciuto da bimbo, ma nel farlo risulta assolutamente contemporaneo al punto da catturare così lo spirito del suo tempo, pur proponendo di fatto un rock dagli stilemi classici.
Anche se si era magari sintonizzati all’epoca su altre onde, era impossibile non notare il suo disco lassù nelle primissime posizioni delle charts dell’NME, in quanto “Stanley Road” vi rimase a lungo, senza uscire dalla top ten per quasi un anno. Passavano dischi, nascevano fenomeni effimeri, arrivavano al primo posto gruppi destinati di lì a breve a un sereno oblio, mentre Paul Weller restava stoicamente in alto, impresso nella memoria. Il suo disco, a risentirlo oggi, risulta a-temporale e viene quasi difficile collocarlo tra Oasis e Pulp, tra Take That e Blur, eppure forte di canzoni solide e di un songwriting mai così vero e ispirato, questo disco riuscì a emergere senza ammiccamenti, senza volersi aggrappare al carrozzone o autoproclamarsi progenitore di una scena.
Nelle dodici tracce che lo compongono ci trovi l’essenza di 40 anni di musica inglese, dai miti assoluti Rolling Stones alla fase cantautorale di David Bowie, dai sempre amati Kinks alle esperienze post punk, senza rinnegare nulla di quanto fatto con i suoi gruppi precedenti, anzi, si può dire che in questa avventura solista che qui arrivò all’apice c’è proprio la perfetta unione dell’irruenza genuina dei Jam con l’anima più soul e sperimentale mostrata negli Style Council.
Che Weller sia in piena forma e desideroso di lasciarsi andare a un diario rock a 360 gradi lo si evince sin dall’energico brano d’apertura “The Changingman” (una definizione che sembra calzargli a pennello), che fa da preludio ad altri episodi ad alto tasso adrenalinico, come “Woodcutter’s Son” o le blueseggianti “Broken Stones” e “I Walk on Gilded Splinters”, magnifica cover della hit di Dr. John.
Nel disco l’irruenza e le chitarre robuste alla T.Rex sono bilanciate nel migliore dei modi da momenti in cui prevalgono atmosfere calde, gentili e rassicuranti, con esiti notevoli nelle ballate “Porcelain Gods”, “Time Passes” (forse la più autobiografica del lotto) e “Wings of Speed”, che chiude il disco con toni spirituali. Tra tutte si staglia senza se e senza ma la splendida “You Do Something to Me”, intensa e carezzevole.
“Stanley Road” rimarrà il successo più grande della lunga e gloriosa carriera di Paul Weller, fotografia autentica di un’epoca in cui la musica inglese si stava preparando alla sua seconda grande invasione, dopo l’incredibile sbornia degli anni ’60. Nel nuovo millennio invece il nostro Modfather è diventato una sorta di cult hero, finalmente anche al di là della Manica.
Paul Weller ““ Stanley Road
Data di pubblicazione: 15 maggio 1995
Tracce: 12
Durata: 52:10
Etichetta: Go! Discs/Island Records
Produttori: Paul Weller, Brendan Lynch
Tracklist:
1. The Changingman
2. Porcelain Gods
3. I Walk on Gilded Splinters
4. You Do Something to Me
5. Woodcutter’s Son
6. Time Passes
7. Stanley Road
8. Broken Stones
9. Out of the Sinking
10. Pink on White Walls
11. Whirlpool’s End
12. Wings of Speed