“Isolation comes from “insula” which means island“. Così si apre “grà…” il secondo album di Moses Sumney. L’isola come via di mezzo, un mondo sospeso tra terra, mare e cielo. Un meraviglioso ibrido indefinito e indefinibile come la musica di Moses, che con il secondo album ha creato un piccolo capolavoro. Innamorato della “via di mezzo”, la descrive e la percorre accompagnato dall’amalgama di suoni meravigliosamente cupi di “grà…”. Un diario dalle pagine grigie e consumate in cui sono trascritte emozioni discordanti che vanno dalla lussuria alla rabbia, pagine di lacrime, di urla e silenzi, che solo chi ha un cuore sofferente, infranto, riesce a leggerne le sfumature.
Trascorrendo la vita ai margini, Sumney ha vissuto negli spazi intermedi sfidando la semplice categorizzazione. Il suo rivoluzionario debutto, “Aromanticism” del 2017, un album senza genere che confondeva l’anima ispirata agli anni ’70 con il jazz alternativo, è stato accolto con stupore, ma ha visto il musicista ampiamente etichettato come artista R&B – con suo conseguente disappunto.
Moses ha cercato con tutto se stesso di allontanarsi da chi voleva a tutti i costi definirlo, catalogare la sua musica; negli ultimi anni si è allontanato ancor di più dalle etichette di critici e fan occasionali e grà… è la prova di come l’artista sia riuscito a fare della diversità il suo tratto distintivo: dall’oscurità verso una parvenza di luce, è lì che troviamo il cantante, da qualche parte esattamente nel mezzo: “I’ve reached a point where I am aware of my inherent multiplicity, and anyone wishing to meaningfully engage with me or my work must be too“, ribadisce in “also also also and and and” la voce distorta dell’autore ghanese-nigeriano Taiye Selasi, suo partner creativo.
Come un Prospero shakespeariano, Sumney descrive il suo viaggio parola dopo parola, dalla perdita dei poteri magici alla prigionia, dal confinamento sull’isola al riscatto dopo la tempesta, è tutto lì, dentro le note, nelle immagini dei suoi video, sulla copertina del disco, nulla è lasciato al caso basta chiudere gli occhi e ascoltare: “When I’m weary and so worn out ooh, when my mind’s clouded and filled with doubt, that’s when I feel the most alive, masochistic kisses are how I thrive” (“Cut me”).
In questo viaggio dalle sfumature del grigio, Moses ci parla della sua infanzia fino al presente, tracciando il suo percorso dall’isolamento alla libertà . “Cut Me”, con il falsetto sfida note apparentemente inesistenti fino a quando non raggiungono un crescendo penetrante, che coincide con lui che canta del dolore usato per bloccare il dolore stesso. Nel testo si legge tutta la complessità dello status di estraneo come “vero figlio immigrato”. La sua identità spezzata è riflessa da sporadici pianoforti ed esplosioni di tromba, tenuti insieme da armoniche scintillanti.
Brani come “Neither/Nor” rappresentano una lotta profondamente personale, messaggio universale unito al desiderio di lasciare qualcosa di se stessi in eredità , una traccia angosciata che raggiunge un climax incredibilmente luminoso alla fine: “They say Oh, who is he? Nobody. Hello, who is he? Nobody. Is it a ghost Is it a plane, Is it a shiver, down your spine Is it delusion, Is it confused, Is it contusion of a hard-earned truth? No, it’s nobody,Nobody, Nobody, Nobody.” Uno squarcio di luce in un cielo minaccioso.
In “Virile” la tensione è viscerale, una decostruzione appassionata della mascolinità nera, tra accordi di piano, arpa e virtuosismi di flauto per tutta la durata del brano, si aggiungono strumenti che durano il tempo di un battito d’ali. Si stratificano rapidamente fondendosi gli uni con gli altri, senza mai lottare per avere il controllo del pezzo. Qui Sumney combatte contro la pressione sistemica alla mascolinità , si dimena, come nel video che accompagna il pezzo, lui contro i patriarchi, contro quella mascolinità tossica fatta di urla e atteggiamenti ruvidi, lui uomo di colore “aromantico” contro quell’uomo di colore “commerciabile”: “Cheers to the patriarchs and the marble arch, playin’ their part the gatekeeper’s march desperate for passing grades, the virility fades, You’ve got the wrong guy You wanna slip right in amp up the masculine, You’ve got the wrong idea, son“. Un passaggio dalle aspettative della fanciullezza alle aspettative della personalità , in cui critica quelle forze schiaccianti onnipresenti che la società capitalistica impone agli individui.
Virtuosismi spaziali in “Gagarin”, una marmellata piano jazz in crescendo che incorpora un brano del pianista svedese Esborn Svensson. La voce, volutamente alterata, avvia una comunicazione ultra terrestre, forse da una navicella spaziale come il protagonista della canzone (il russo Jurij Gagarin) o forse, da un’altra dimensione. Proprio quando sembra che la canzone stia per finire, un altro elemento meravigliosamente inaspettato viene aggiunto al mix in dissolvenza, un mix che ci invita a rinunciare, a lasciare che le cose accadano, accettando il nostro piccolo, minuscolo, posto nell’universo. Un pugno allo stomaco “Colourour”: “Say I wanna change you, that was never true, look up at the grey hues, they could all be shades of blue“. Il concetto è quello lì, ribadito anche nel titolo, un colore che simboleggia l’assenza di colori assoluti, a sua volta sfocato tra due grafie, “nè grigio nè grigio“, ma un’essenza indefinita nel mezzo. In “Colourour” i sassofoni noir e la voce delicata, a tratti sospirata del musicista, regalano al grigio sfumature di blu.
Una vocalità sofferente, desiderosa di amore in “Polly” si appoggia sulla chitarra acustica. La grazia di Moses canta: “Are you dancin’ with me? Or just merely dancin’? Am I just your Friday dick?“, mille sfumature su liriche realiste, raccontano i sentimenti di una persona monogama, innamorata di una poliamorosa. Ma “Polly” è anche una metafora per quelle persone che mettono in pericolo il nostro quotidiano, facendoci dubitare di essere meritevoli di ricevere ciò che bramiamo: “I don’t wanna live here, sometimes don’t wanna live at all“.
Il panorama dietro Sumney cambia costantemente e le tracce sbocciano lentamente come in “Two Dogs”, “Me In 20 Years” e “Lucky Me” dove il ritmo lascia spazio alla voce sola, splendente, sofferente e mai come ora, unica protagonista. L’attenzione è stata catturata e Moses chiede all’ascoltatore di avvicinarsi e di ascoltarlo guardandogli l’anima.
Lontano da quei fuochi d’artificio della prima parte chiude l’album “Bless me/Before you go” che volutamente ci lascia con delle domande senza risposta, forse le stesse che facciamo a noi stessi o che almeno una volta nella vita ci siamo fatti: “What does it mean to be in love? What does in love mean? What does in love mean? When we die, we won’t be together. You will never see that person again. Now go.”
Il dolore, il dolore, il dolore, ripete la voce asincrona tra una domanda e l’altra. La cruda realtà abbellita da una voce così eterea. C’è ancora molto da dire, moltitudini da rivelare. Ma per ora è tutto. E’ ora di andare. E’ ora.
Photo credit: Alexander Black