di Angelo Mozzetta, redattore della pagina Facebook “We are Celtics – Boston Celtics Italia“
The Last Dance ““ Non chiamatela documentario!
La serie sulla dinastia dei Bulls di Michael Jordan è il fenomeno commerciale del momento, tanto da surclassare su Netflix “La casa di carta”: bramata sin dal suo annuncio da tutti gli appassionati di basket del mondo, distribuita a cadenza settimanale, è sostanzialmente una grandissima operazione commerciale di quello che è forse il miglior dominatore di singole partite di sempre ad aver calcato i parquet della NBA.
Di documentaristico, in realtà , c’è solo l’apparenza formale: materiale inedito sulla squadra sul quale torneremo, filmati d’epoca e i contributi di tutti i chiamati in causa. Intrinseco conflitto del documentario, da sempre, è fingersi il genere cinematografico più oggettivo ma risultare poi il più fazioso nel risultato. Il risultato finale è un meraviglioso affresco visivo, asciutto ma comunque dal ritmo eccezionale, il cui intonaco è una miratissima sceneggiatura (perchè di quello si tratta) che molto ha di cinema hollywoodiano e un po’ anche del poema epico, nel quale la caratterizzazione dei personaggi è subordinata più alla struttura narrativa che alla verità storica: abbiamo il protagonista Jordan, bello, giovane e talentuoso, i cui difetti sono letti in chiave positiva e i cui errori sono le occasioni di riscatto, il fedele scudiero Pippen, il compagno con cui litiga per poi scoprire un carattere comune Steve Kerr, l’antagonista General Manager Jerry Krause, goffo, grasso, sgraziato e sporco di cibo (ne nascerà un non lusinghiero soprannome), il cattivone antipatico Isaiah Thomas e i Bad Boys dei Pistons, il saggio allenatore Phil Jackson che gli riconosce lo statuto che sente di meritare, i vecchi eroi Bird e Magic che passano il testimone celebrandone la grandezza, il matto della squadra Dennis Rodman con la bambola vittima del suo fascino ribelle Carmen Electra…e non dilunghiamoci oltre.
Nei giudizi postumi degli estimatori della serie potremo trovare due macrocategorie e una infinita serie di sottogruppi fra queste: quelli che non conoscevano la storia e hanno potuto rivivere la potenza del fenomeno-Jordan sportivo, mediatico e culturale negli anni ’90, e quelli che conoscono a menadito ogni singolo episodio preso in oggetto e, pur godendo del meraviglioso lavoro registico, non possono non notare delle prese di posizione decisamente Jordaniane. Anche quando sono d’accordo. Non che non ci sia del buono, nella serie, anzi: le parti più genuine sono quelle sul Jordan uomo e personaggio pubblico, sull’atleta competitivo, sul figlio addolorato. Molti personaggi secondari, su tutti Rodman e Kerr, svolgono il loro ruolo alla perfezione.
Ma facciamo qualche esempio, senza neanche sfiorare il capitolo-Phil Jackson, illegibile nelle dichiarazioni quanto i sottotitoli sopra quella tremenda camicia, che meriterebbe un libro a parte: prendendo un punto di vista diverso, la dirigenza Bulls ha attuato il rebuilding della squadra come tante altre franchigie fanno quando vedono il tramonto, e ha scelto di monetizzare nel momento che ha ritenuto economicamente più opportuno; inoltre, chiunque conosca un minimo i principi del Salary Cap della NBA, sa che il contratto economico e lunghissimo di Pippen e la conseguente non rinegoziazione furono una notevole base d’appoggio per costruire il resto della squadra. A chi non sarebbe piaciuto, sportivamente parlando, vedere un’altra stagione dei Bulls? A me si, per esempio. Una delle tesi principali del documentario verte proprio su questo, facendo leva sui sentimenti sportivi dei fan, mentre le motivazioni economiche dei proprietari e dei manager risultano sempre fredde e di circostanza, anche perchè è nel loro ruolo farle come è nel loro ruolo una diplomazia di fondo verso la ex star assoluta della squadra, e nessuno tranne loro sa quanto sarebbe costata tutta la giostra a livello economico. Ma basta questo a renderli i cattivi di turno? Ed è davvero Krause il cattivo, o in quanto manager e non proprietario, si arrangiava come poteva con le direttive dell’owner Jerry Reinsdorf?
Ma andiamo alla genesi del film, per essere ulteriormente esaustivi: la troupe che girò gli inediti rimasti a impolverarsi per oltre 20 anni negli archivi ESPN ebbe il permesso di riprendere soltanto grazie alle garanzie che ebbe Jordan in merito al controllo assoluto che avrebbe avuto su di essi. Ora, grazie all’ottimo lavoro di Jason Hehir, che di retorica sportiva se ne intende eccome, questi materiali tornano alla luce, e Hehir tenta di fare il lavoro nel modo più onesto e accorato che può, soprattutto sul coinvolgimento e l’impegno non si può non dargli merito: poi magari sarà una scelta di montaggio o della produzione, ma in ogni contraddittorio l’ultima parola è lasciata sempre a Jordan.
Michael Jordan, fra le altre cose, è stato il miglior realizzatore nei playoff e uno che, quando contava davvero, segnava sempre. Nel basket, un grande realizzatore sa che la parte più importante di un tiro segnato è come te lo sei costruito: in questo caso, sembra essersi costruito direttamente l’intero campo da gioco.