A quasi 55 anni, di cui una quarantina trascorsi a occuparsi di musica (è accreditato con uno dei suoi primissimi gruppi in una compilation punk del 1980), Moby non ha davvero più nulla da dimostrare. La sua discografia ormai è assai copiosa e da onnivoro musicale qual è, ha sondato praticamente tutti i generi, in proprio o collaborando a più titoli in progetti altrui.
Indubbiamente, se il suo nome è trasversale (e se nonostante tutto ad ogni uscita c’è sempre attesa e un pizzico di curiosità nel vedere se saprà ancora in grado di stupirci) è grazie al boom di inizio millennio e a magnifici album come “Play” (uscito invero nel 1999) e “18”, in cui mirabilmente fu in grado di shakerare in un unico calderone musicale ogni sua influenza possibile, sdoganando di fatto generi come la techno e la house, i suoi ambiti di maggiore competenza.
Col successo la lente di ingrandimento si è poi spostata – come capita sovente – su fattori extra musicali e quindi abbiamo saputo della sua lunga dipendenza dalle droghe, della sua depressione, della sua conversione cristiana e del suo sposare la causa del veganesimo. Tutto questo non ha inghiottito la sua arte, non volevo far intendere quello, ma spesso e volentieri ci si è ricamato sopra. Certo, lui c’ha messo pure del suo, con dichiarazioni forti e dai toni provocatori: insomma, Richard Melville Hall rimarrà pur sempre un outsider, una scheggia impazzita difficile da domare, per quanto nell’ultimo decennio sembra aver ritrovato la rotta e si sia concentrato sulla musica e su aspetti che la riguardano da vicino, tipo la campagna per liberalizzarla.
Personalmente ho apprezzato più o meno tutti i suoi dischi pubblicati negli anni ’10 ma sembrava che di concessioni al mercato, brutalmente parlando, il Nostro non volesse più offrirne. Non mancavano certo i guizzi in lavori meditativi come i due capitoli di “Long Ambient”, ma specie l’ultimo – uscito un anno fa – sembrava scritto apposta per quelle compilation rilassanti.
Niente di tutto ciò nel nuovo “All Visible Objects”, visto che Moby è tornato a confezionare un album più ad ampio raggio e musicalmente vario, seppur ancora imparentato strettamente con certa raffinata house, che specie nel finale sfocia in quelle atmosfere sospese, dilatate dell’ambient music.
L’inizio ad esempio è affidata a “Morningside”, adagiata su un tappeto ipnotico in cui solo da lontano si sente l’eco dell’ospite Apollo Jane. I ritmi si alzano soprattutto con la quinta traccia, “Power is Taken”, in cui collaborano DH Peligro (già batterista degli iconoclasti Dead Kennedys) & Boogie ma prima ancora ci eravamo già fatti trasportare dalla riflessiva “Refuge”, dove interviene in modo solenne Linton Kwesi Johnson e da “My Only Love”, riuscita cover del brano dei Roxy Music.
Non ci sono ammiccamenti particolari al pubblico, non sembra che Moby nel mettere insieme gli 11 brani del disco abbia pensato a un particolare tipo di ascoltatore, quanto piuttosto che il suo obiettivo fosse di dimostrare prima di tutto a se stesso che quando scende in pista per davvero, ha ancora pochi eguali. Prendiamo un brano come “Rise up in Love” – di nuovo con la magnifica voce di Apollo Jane – che sembra poter competere con le hit dance di Guetta e affini, solo che lui queste cose le faceva prima.
In ogni caso il meglio lo offre nella seconda parte, quando i toni rallentano e diventano crepuscolari e struggenti in una canzone come “Too Much Change”, ballata onirica al pianoforte sorretta dal canto della splendida Jane qui finalmente libera di mostrarsi e di emozionarci.
E’ quello il picco emozionale di un album che va a chiudersi con tre lunghi strumentali di buon livello: “Separation”, dimessa e melanconica, la tambureggiante “Tecie” e la title track che, dispiegandosi in oltre nove minuti di durata, va a toccare le corde giuste, dai brevi cenni pianistici nella intro fino ad avvolgere con i suoi suoni epici.
Non era lecito aspettarsi hit come “Porcelain” o “Natural Blues”, e difatti nell’album non ve n’è nemmeno l’ombra, ma Moby ha realizzato un lavoro che contiene qualcosa del suo periodo più fulgido, a partire da una scaletta omogenea e senza riempitivi.
“All Visible Objects” sembra avere una qualche probabilità di rilanciarne il nome, il chè non sarebbe male anche per gli scopi prefissati, cioè devolvere gli interi proventi ad associazioni che operano a tutela dell’ambiente e degli animali. Tutto ciò non deve essere mai dato per scontato o “facile”, nemmeno se sei miliardario come lui.
Credit Foto: Melissa Danis