I Moca, per me, sono casa.
Un po’ perchè vengono dalla mia città (La Spezia nel cuore) e siamo cresciuti negli stessi sputi di vie, nella rarefazione di una scena provinciale avara di spazi, ricchissima di idee; un po’ perchè sentirsi a casa con i Moca è quasi inevitabile: tutto quello che cantano, scrivono e producono sa di mura domestiche – senza per questo perdere attenzione per i minimi particolari, per le sfumature più eleganti -, focolari in pietra e muretti a secco.
“Oplà “, il loro album d’esordio posticipato nella sua pubblicazione al terzo venerdì di giugno causa Covid – prima tranche di un disco doppio il cui secondo capitolo è previsto per l’autunno – diventa un inno all’appartenenza ligure, senza perdere acchito e richiamo per un mercato nazionale che ora più che mai ha bisogno di senso di identità e radici, nello slancio di una rinnovata tradizione.
All’interno di “Oplà ” si articolano nove perle di cui la maggior parte già conosciute ai fan, con il surplus di tre nuove chicche: “Promesse” è una hit delicata, che richiama le sonorità giocose di alcuni brani più belli dei Beatles (la coda del pezzo, impreziosita dai cori di cmqmartina, ricorda le atmosfere di “All Togheter Now”, o di “Across The Universe”); “Astenopia” è un vagito che viene dritto dritto dagli anni ’70, immerso in sonorità new soul che danno al tutto il giusto tocco di esterofilia e vocazione internazionale, mentre “Le Piante” nasconde in piena vista il testo più impegnato del long play senza per questo appesantirsi di inutile retorica, confermando i Moca come compagine pop di una scena che vuole ancora impegnare l’ascoltatore, senza inibirne i movimenti pelvici.
Insomma, “Olpà ” si rivela essere uno dei dischi d’esordio più interessanti di questo primo, folle 2020; ma fidatevi, il meglio deve ancora venire.
Parola di spezzino.