Due mostri sacri della scena alternativa italiana, Edda e Gianni Maroccolo, hanno pensato bene durante la fase della quarantena, quando tutto era ancora sospeso e del futuro (anche) della musica non era dato sapere, di unire le forze, realizzando a distanza un album dove magicamente i pregi dell’uno e dell’altro vengono sottolineati e amplificati.
Le canzoni di “Noio; volevam suonar.”, registrate a casa del padre di Edda e nello studio di Maroccolo, escono infine nel momento in cui è lecito auspicare una ripartenza per tutti noi.
Un regalo, letteralmente, basti pensare che l’intero lavoro era a disposizione gratuitamente, sia in versione fisica che digitale, previo pre-order da effettuare entro il 15 giugno, comprensivo in pratica delle sole spese di spedizione. Ma, cosa più importante, per gli appassionati musicofili, il vero dono è giunto dalla musica scaturita in quei preziosi e fruttiferi scambi fra i due.
Due mondi che in teoria sembravano lontani, quelli di Stefano Rampoldi e di Marok, che in tanti anni di militanza artistica hanno accumulato esperienze molto diverse, utilizzando oltretutto dei linguaggi che in apparenza non potevano collimare. Più viscerale, ficcante, spiazzante il primo, più evocativo, sperimentale, contaminato il secondo, seppur con il denominatore comune della curiosità , della genuina passione e della poesia a fare da collante. I due si erano già “annusati”, avendo avuto modo di collaborare insieme nella serie “Alone” di Maroccolo, ed era scattata immediatamente una felice alchimia.
E’ sempre entusiasmante quando il risultato di un simile connubio coincide con le aspettative, nonostante – ma sembra quasi pleonastico ammetterlo – non si tratti certo di un album definibile banalmente come facile, men che meno furbo o studiato a tavolino.
In queste 11 tracce troviamo l’essenza di due musicisti che hanno avuto modo, durante i rispettivi lunghi percorsi, di esprimere con la musica la propria vita, finendo per darne un senso profondo; nel farlo, hanno attraversato e superato momenti anche di crisi, ma ciò ha rafforzato ancora di più la consapevolezza che la musica non è solo business, successi o gloria, ma anche un canale (privilegiato) per condividere emozioni e contenuti. Di fatto, con loro funziona così da sempre, dalle esperienze ad esempio con i Litfiba, Ritmo Tribale, C.S.I. e P.G.R., oltre ovviamente a quanto prodotto da entrambi in veste solista.
Se il pubblico, a distanza di tanti anni, è ancora fedele a tutto ciò che esce dalle penne e dai cuori di questi due signori, è perchè le loro parole, i loro suoni, sono credibili, veri, oltre che il più delle volte autenticamente ispirati.
Sacro e profano, fantasia e realtà , rielaborazione e recupero, genio e sregolatezza, divino e terreno, si incontrano e si mescolano in “Noio; volevam suonar.”, il cui titolo semiserio è alquanto programmatico dell’urgenza creativa di cui è mirabilmente connotato.
La citazione di “Totò, Peppino e la…malafemmina” è presente anche nel bellissimo artwork di Marco Olivotto che campeggia in copertina e che un po’ (come le registrazioni del dialogo fra i due protagonisti che aprono l’iniziale “Maranza”) spariglia le carte, giocando a confondere l’ascoltatore sulla natura di un progetto che, seppur estemporaneo (ma mai dire mai) si rivelerà traccia dopo traccia solido, eccitante, assolutamente riuscito.
La prima canzone, dicevo, non tradisce la natura ondivaga di un personaggio come Edda e l’eclettismo musicale di un maestro come Maroccolo, ma funge soprattutto, col suo rock sghembo e incisivo al tempo stesso, da antipasto a un piatto che si preannuncia assai prelibato sin dal brano che lo segue in scaletta. “Servi dei servi” è infatti un sentito omaggio, un ricordo di un periodo fervido, controverso ed eloquente per Milano, quello di autonomia operaia e dell’epopea del Virus, già narrata in modo sublime da Marco Philopat. Anche la successiva “Noio” porta la firma dell’ex tribale e gode di quell’alone surreale che spesso lo contraddistingue, mentre il pezzo, in principio compresso, si svela poi in tutta la sua ampiezza forte di un irresistibile drumming che ci ricorda più la celebre “A tratti” dei C.S.I., che i Baustelle de “La guerra è finita”, citati da Edda tra le note del disco.
“Stai zitta” è invece il primo manifesto intimo del disco, un’invocazione di un ex brigatista alla sua amata, un’ammissione di fragilità , mentre tutto l’“Edda pensiero” emerge in un brano caratterizzante come “Madonnina”. In “Bebigionson”, il non sense delle liriche si sposa con una ritmica accattivante e che induce alla danza, guidato dal basso pulsante di uno che dello strumento ha fatto scuola.
Maroccolo è indubbiamente il fulcro su cui ruota la parte tecnica e musicale; lui si è occupato della produzione artistica e di tutti gli arrangiamenti, spaziando sulla materia rock e sapendola declinare in tutti i suoi aspetti, evidenziando per ogni brano di volta in volta i punti di forza. Una canzone scritta in coabitazione da Edda e Alessandro Grazian, ad esempio, a detta del primo, ha beneficiato non poco dell’arrangiamento di Gianni: non avendo una controprova, posso limitarmi a constatare come la versione di “Esce il sangue dalla neve” alla fine registrata, in cui è intervenuto anche Flavio Ferri, sia in effetti intensa e affascinante, per uno degli episodi più a fuoco dell’intero lavoro.
La successiva “Achille Lauro”, dalle premesse spiritose e forse provocatorie (ma con Edda non è mai semplice stabilire i confini della realtà ), si presenta invece come una ballata emozionante e toccante, una canzone d’amore con tutti i crismi che fa da preludio alla prima delle due cover inserite nel disco. “Sognando”, splendido brano di Don Backy, portato al successo commerciale da Mina, è qui rivestita di nero, con i tocchi di Maroccolo a conferire toni dark al tutto e l’interpretazione dimessa e naturale di un Edda calatosi meravigliosamente nei panni del disperato protagonista.
L’altra rivisitazione è quella di “Castelli di sabbia” di Claudio Rocchi, l’artista che specie con Marok aveva intrecciato un rapporto professionale e amicale strettissimo. L’omaggio è molto sentito da parte di entrambi, e se musicalmente la bellezza della canzone rimane intatta ed è impreziosita da un arrangiamento eccelso e raffinato, dal punto di vista vocale la performance ottenuta sa toccare le corde più sensibili, finanche commuovere.
Nel mezzo avevamo ascoltato il recupero di due tradizionali mantra di provenienza Vaisnava, un valido contributo di spiritualità a un lavoro che, nato in maniera assolutamente spontanea per la forte stima reciproca che caratterizza i due protagonisti, si è rivelato presto molto più di un gradito regalo.
E’ un documento vitale, fresco e rilevante, dove la qualità viene profusa a fiumi, baciata com’è dalla grazia di due talenti autentici che hanno ancora accesa in se stessi la scintilla dell’arte.