Il nuovo album dei Pretenders inizia “… con un errore. Un’armonica che non prende la strada giusta nella title track dedicata ai The Damned, una pausa e poi si comincia sul serio. Un contrattempo che fa capire subito lo spirito con cui la band di Chrissie Hynde ha affrontato i dieci brani prodotti da Stephen Street.
Disco numero undici nato dalla collaborazione tra la Hynde e il chitarrista James Walbourne, che vede il ritorno di uno dei Pretenders originari: Martin Chambers alla batteria. Non accadeva dal lontano 2002 (“Loose Screw” per essere precisi) e avere un “vecchio” leone in cabina regia fa bene al quintetto, che già aveva dimostrato di godere di buona salute quattro anni fa con “Alone”.
Rock genuino, scapigliato, tradizionale e impertinente. Non ingentilito nè addomesticato dal tempo che passa. Il ritmo varia tra il grintoso senza scampo e il melodico con brio, chitarre in primo piano e romanticismo mai sdolcinato. Divertenti le divagazioni come “Lightning Man” suonata con piglio felpato e basso potente, un approccio di stampo quasi reggae decisamente rischioso.
Il meglio però i Pretenders lo danno quando cavalcano e graffiano come in “Turf Accountant Daddy” con quella linea di sintetizzatore che serpeggia vivace, nella classica e veloce “Didn’t Want to Be This Lonely” o in “I Didn’t Know When to Stop” dove torna la diabolica armonica. Diverse ballate popolano questa mezz’oretta di musica: ben cantata “You Can’t Hurt a Fool”, ancora migliore la blueseggiante “Maybe Love Is in NYC” che Chrissie Hynde padroneggia con stile, intensa “Crying in Public” con piano e orchestra.
I Pretenders continuano imperterriti sulla retta via (che per loro è una cattiva strada ovviamente) dopo quarant’anni di carriera e infiniti cambi di formazione. Non saranno il futuro del rock ma non sono ancora pronti ad esserne il passato nè a fargli “… il funerale.
Credit Foto: Matt Holyoak