Usciva esattamente vent’anni fa l’opera che, seppur per breve tempo, suggellò i Dandy Warhols tra i massimi alfieri dell’indie rock.
“Thirteen Tales From Human Bohemia” era riuscito a contenere nel migliore dei modi tutto il magma creativo della band, e del suo leader Courtney Taylor-Taylor in particolare. Già , proprio il versatile frontman, aspirante bohèmien, conosciuto per l’inusuale vezzo del cognome raddoppiato, fu da sempre il fulcro cui ruotavano tutte le loro intuizioni musicali, le provocazioni e le idee. Ciò funzionò sin dal principio, da quando si ritrovò a fondare il gruppo con l’amico conosciuto al college Peter Holmstrom, sull’onda dell’amore comune per i magici sixties (in particolare per gruppi come Beatles e Beach Boys). Poi l’epifania, sotto forma dei Velvet Underground!
La loro era una devozione totale per quel mondo nemmeno troppo lontano, in cui New York era avanguardia pura, e che ne abbeverava l’immaginario, corroborato dalle letture dei filosofi e intellettuali di riferimento. La suggestione fu tale da portarli a coniare per la band un nome che intendesse omaggiare, con un divertente e riuscito gioco di parole, il padre della Pop Art Andy Warhol.
Musicalmente però i due, affiancati dall’affascinante tastierista e bassista Zia McCabe e dal batterista Eric Hedford, sembravano badare più al sodo, senza perdersi in fini intellettualismi, puntando su una musica incisiva e diretta e su performance vitali ed entusiasmanti. E fu grazie a quei concerti, in cui poteva succedere di tutto, che i nostri furono notati da una major (nella fattispecie, la Capitol), laddove il primo album del “’95 (pubblicato con una label indipendente) aveva incontrato timidi riscontri e pochi consensi.
Le prove generali del nuovo corso furono affidate a un album godibile ma a tratti fuori fuoco come “The Dandy Warhols Come Down”, sorta di presentazione ufficiale al grande pubblico, che può vantare al suo interno già una piccola futura hit come “Not If You Were the Last Junkie on Earth”. I tempi non erano ancora maturi per un’affermazione su vasta scala ma almeno in Europa il loro nome iniziava a campeggiare tra quelli sospinti dall’hype, cosicchè il loro tiro power pop e un’attitudine colorata e festosa seppero attirare schiere di giovani fans.
A conti fatti, la prima prova su una grossa casa discografica si poteva ritenere superata. Quello che mancava ancora era la classica ciliegina sulla torta.
Ed ecco così che, all’altezza del terzo album, uscito nel 2000, il più succoso dei frutti fu colto… identificabile – croce e delizia – con quel super inno indie pop che risponde al nome di “Bohemian Like You”, manifesto programmatico di un intero percorso fin lì svolto e giunto felicemente a compimento: la summa delle loro implicazioni narrative e musicali.
C’è tutto il Taylor-pensiero dentro quegli avvincenti tre minuti e mezzo, e nell’iconico video, famoso quanto la canzone, c’è la loro anima manifesta.
Il rischio tremendo di vedersi trasformati in una delle tante dimenticate band one hit wonder fu grosso e tangibile: occorreva smarcarsi da lì, ovviamente dopo aver goduto del clamoroso successo tanto agognato e finalmente raggiunto.
E’ un peccato però che una singola canzone, seppur nel suo ambito notevole, abbia finito per oscurare la bontà dell’intero lavoro. Un giudizio positivo che è rimasto intaccato negli anni ma che viene inevitabilmente riferito a quel brano, tralasciando che nelle charts e nei cuori dei fans avesse fatto la sua ottima parte anche “Get Off”, su cui tra l’altro cadde la scelta come primo singolo di lancio, a dimostrazione della sua forza intrinseca. In effetti ebbe una buona presa sul pubblico, giusto compromesso tra le primordiali peculiarità e ingenuità degli esordi e le consapevolezze in seguito maturate.
Anche visivamente il quartetto appariva in buona forma e perfettamente bilanciato, tra il fascino androgino di Taylor–Taylor e quello più ruvido di Holmstrom; certo, il ruolo della McCabe venne un po’ ridimensionato rispetto agli inizi, quando giocava molto con la sua prorompente fisicità (svestendosi spesso e volentieri sul palco), ma in compenso il nuovo batterista Brent DeBoer, cugino del leader, si era integrato benissimo nell’ensemble e poteva vantare un certo charme latino.
E’ però fuorviante considerare solo l’apparato estetico dei Dandy Warhols, seppure dichiaratamente ostentato. Saremmo tratti in inganno soffermandoci su quell’aspetto, visto che dietro la forma vi era molta sostanza, almeno fino a questo disco, dove gli stilemi del rock alternativo sono declinati nel miglior modo possibile. Non solo pop allegro e scanzonato comunque, bensì profuso nella più vasta accezione della materia, che si traduceva in episodi felici come “Godless”, che apre la scaletta in modo delicato e intenso allo stesso tempo (con un arrangiamento d’archi che ne amplifica i toni spirituali), e in una “Country Leaver” adatta a scandagliare l’universo folk con un retaggio però assolutamente contemporaneo. E che dire della poetica e struggente “Mohammed”? Insomma, è innegabile che l’ispirazione volasse alta: ne riscontriamo anche nell’acustica e dolente “Sleep”, nell’evocativa “The Gospel” o nella cadenzata “Big Indian”.
Altrove si innalza solenne e fiero il vessillo dell’country, con il miraggio di conquistare finalmente il suolo americano. Sarà di fatto così, e il nome della band, su cui ci furono endorsement di un certo peso, primo fra tutti quello di David Bowie che li volle anche come opener del suo tour, raggiunse infine quel pubblico a stelle e strisce che sembrava sin lì indifferente.
Giunti in cima però, come un musicante Icaro, anche i Dandy Warhols, avvicinatisi troppo al sole, finirono per scottarsi, tanto che la caduta nell’oblio fu piuttosto fragorosa e repentina. Ma onestamente non fu solo colpa del pubblico incline a seguire i trend musicali del momento; il dato di fatto è che il gruppo non riuscì più a realizzare un album all’altezza di questo.
I successivi lavori, infatti, in bilico fra il tentativo di battere nuove strade (esagerando talvolta nell’uso massiccio di synth) e quello nemmeno troppo velato di replicare il boom di quel singolo, sono passati senza lasciare tracce, privi di sussulti e, ahimè, buone canzoni.
Non ci saranno più quindi loro compleanni da festeggiare nella nostra rubrica, ma con “Thirteen Tales From Urban Bohemia” i Dandy Warhols avevano ottenuto il loro apice e un album così meritava eccome il giusto tributo. Dopotutto, a distanza di vent’anni tondi, in tutti i locali indie che si rispettano, quando partono le prime note di “Bohemian Like You”, la gente ancora oggi si elettrizza e inizia a ballare scatenata.
The Dandy Warhols ““ Thirteen Tales From Urban Bohemia
Data di pubblicazione: 1 agosto 2000
Tracce: 13
Lunghezza: 56:03
Etichetta: Capitol Records
Produttore: Courtney Taylor-Taylor, Dave Sardy, Gregg Williams
Tracklist
1. Godless
2. Mohammed
3. Nietzsche
4. Country Leaver
5. Solid
6. Horse Pills
7. Get Off
8. Sleep
9. Cool Scene
10. Bohemian Like You
11. Shakin’
12. Big Indian
13. The Gospel