Nel 2011, con l’uscita di “The People’s Key”,  Conor Oberst annunciò che la vita dei Bright Eyes sarebbe tertminata, dopo dieci album in dodici anni   e con una produzione di tanti ottimi brani.

Una decisione che rese infelici i tanti fan che negli anni li avevano seguiti e che avevano vissuto la crescita musicale della band e che lasciò la sensazione che i Bright Eyes avrebbero potuto ancora crescere e trovare l’album in grado di certificare sempre di più il loro valore.

La capacità  di scrittura introspettiva di Conor Oberst, la sua voce tremolante, espressiva e capace di creare il giusto pathos, cosa che poi ho ritrovato nella fantastica Adrianne Lenker dei Big Thief , unita alle capacità  dei suoi soci Mike Mogis e Nate Walcott, sembravano essere la combinazione perfetta per la nascita di una nuova cult band capace poi di esplodere appena fosse uscito l’album giusto.

Ma la loro storia sembrava proprio finita, con Conor Oberst impegnato in una carriera solista e in vari progetti che, anche se comunque validi, non sembravano essere un passo in avanti rispetto al percorso intrapreso con i   Bright Eyes.

La notizia che a distanza di nove anni sarebbero tornati con un nuovo album era quindi una gran bella cosa, un ritorno che poteva significare un nuovo inizio, un punto di (ri)partenza per riprendere da dove avevano lasciato, ma che rappresentava anche il rischio che la magia degli inizi fosse completamente svanita.

Tolgo ogni dubbio e ve lo dico subito, la magia non è affatto svanita ma anzi si ripropone più forte di prima, con un album ispirato, pieno di belle canzoni, una forma di evoluzione del suono che riprende il passato ma lo trasforma anche attraverso arrangiamenti a volte coraggiosi e a volte classici, tramite l’utilizzo, in tantissimi brani, non solo della classica strumentazione di una rock band, basso batteria e percussioni, ma anche di varia strumentazione tipica della musica orchestrale, capace di costruire una sorta di Wall of Sound alla Phil Spector.

In questa costruzione musicale, ricercata e potente, si stende la voce di Conor Oberst che, arrivato ai quarant’anni , e reduce da un divorzio, dal dramma della morte prematura del fratello e da una malattia debilitante, scrive ancora del dolore, della sensibilità  di chi si guarda dentro, della incapacità  di crescere, delle perdite inevitabili e di quelle inaspettate, mantenendo una freschezza di scrittura sempre affascinante e coinvolgente.

“Down in the Weeds, Where the World Once Was” appare come un album molto personale nei testi, cosa che io apprezzo sempre, molto collaborativo e ricercato nella costruzione musicale, con la partecipazione di molti ospiti quali Flea  dei  Red Hot Chili Peppers  e Jon Theodore  (The Mars Volta,  Queens of the Stone Age).

L’album, come accennavo, è un susseguirsi di bei pezzi, alcuni già  apprezzati nelle anticipazioni e ascoltati in continuazione e altri tutti da scoprire, come la bellissima “Just Once in the World” che cresce secondo dopo secondo, arrangiata magnificamente, abbellita dai cori, con una grande sezione ritmica e con un bel testo dove Conor Oberst ci invita tutti alla festa per la fine del mondo.

“Mariana Trench” vede Flea al basso e Jon Theodore alla batteria  e presenta un testo i cui spunta una critica alla società  attuale sviluppata in modo intelligente ed evocativo .“Well they’d better save some space for me, In that growing cottage industry, Where selfishness is currency, People”…spend”…more than they”…make”, mentre in altri troviamo gli espliciti riferimenti personali di cui parlavo prima, come in “Comet Song” nella quale, tra accuse di essere un eterno Peter   Pan e piatti volanti, i ricordi dell’amore passato si frantumano, “You clenched your fist and threw the dish and called me Peter Pan / Your aim’s not very accurate and I thank God for that /   Although I told you many times I’m not much of a man / You held out hope believing that at least I might pretend“.

Se per “Persona Non Grata”, “Forced Convalescence” e “One and Done” non credo sia necessario dire altro visto che sono stati ampiamente ascoltati e apprezzati (credo) da tutti, preferisco citare “Pan and Broom”, in cui viene utilizzata una vecchia drum machine e Conor Oberst è ottimamente affiancato vocalmente in alcuni passaggi, cosa che succede in altri pezzi. “Tilt-A-Whirl” inizia con una chitarra e poi si riempie di suoni, mentre il fantasma del fratello gli appare e la tristezza che pervade tutto l’album raggiunge l’apice, con un bel testo e una perfetta combinazione di suoni e voci.

Una menzione  speciale la merita “Dance and Sing “, non solo perchè apre le danze, ma soprattutto perchè riesce subito a colpire e ad emozionare, e anche se resisto alla tentazione di andare avanti   brano dopo brano, questo è un album da ascoltare attentamente e che vi consiglio, un lavoro che merita l’attenzione che si aveva un tempo, quando un vinile restava sul piatto a lungo, e non come magari avviene oggi con la  frenetica e immensa proposta continua, che spesso mortifica l’ascolto e si risolve in un usa e getta continuo.

A sad fact widely known / The most impassionate song to a lonely soul / Is so easily outgrown / But don’t forget the songs that made you smile / And the songs that made you cry ” cantava Morrissey in “Rubber Ring” costruendo un passaggio così perfetto e condiviso che tutti i fan degli Smiths lo hanno impresso nella mente: l’arrivo della maturità , la perdita dei sentimenti ritenuti semplici attraverso l’accettazione di un ruolo sociale, ma si può essere l’uno e l’altro, si può apprezzare e riconoscere la poesia, approcciarsi all’arte nelle sue forme grandi o piccole con curiosità  e la giusta empatia, si può sognare e commuoversi, soprattutto quando si incontrano scrittori capaci di mettere se stessi in gioco.

Un grande album, una combinazione di artisti che funziona e che torna dando solo certezze, una vera band con idee, testi importanti, un interprete perfetto, una cult band di cui avevamo proprio bisogno.

Credit Foto: Shawn Brackbill