Torno a scrivere di musica dopo un po’ di tempo, dato che da un paio d’anni a questa parte sono stato trasferito dal sommo Riccardo alla sezione ‘live report department’ e, come sapete stimati colleghi, siamo ahimè disoccupati a tempo indeterminato…al momento non si vede la luce.

Fatta questa premessa, torno a raccontare un disco nuovo della mia band preferita in materia di concerti, chi ha visto i Flaming Lips almeno una volta dal vivo, sa di cosa sto parlando, a mio giudizio sono i numeri uno, in una classifica che, d’accordo, lascia il tempo che trova, dato essere difficile e forse inutile fare della graduatorie, ma Wayne Coyne e soci sono in grado di farti divertire, gioire, piangere, ridere, cantare, ballare, mischiando sapientemente ironia, imprevedibilità , genialità , fantasia, e chi più ne ha più ne metta. Una festa vera e propria con un repertorio assoluto.

Anche il lato discografico, appunto, ha contribuito a renderli una band fondamentale a tutti gli effetti, da “Clouds Taste metallic” al masterpiece “The Soft Bulletin” del 1999, passando per “Yoshimi Battles the pink robots” o lo stesso “Embryonic”, sono pubblicazioni da libri di scuola, raccolte che hanno lasciato il segno in questi trenta lunghi anni di carriera.

Venendo ad “American Head”, che esce a poco più di un anno dall’altrettanto bello “King’s Mouth” e a tre da “Oczy Mody”, diciamo subito che è un buon disco. Non posso urlare all’ennesimo capolavoro, perchè non tutto è perfetto, soprattutto in materia di scrittura: ci sono alcune canzoni che mi lasciano indifferente (almeno al momento in cui sto raccontando le mie impressioni, scrivendo queste parole dopo 4 attenti ascolti). Va altresì detto che dopo così tanti anni il talento e l’ispirazione ci sono ancora e l’asticella è sempre alta.

Non mancano gli ingredienti migliori del marchio di fabbrica che ha segnato la storia dell’indie pop / rock che dir si voglia dei Flaming Lips. Richiamato addirittura Dave Friedman in cabina di regia, lui che insieme a Nigel Godrich ha marchiato a fuoco gran parte delle migliori produzioni degli ultimi vent’anni, un fuoriclasse vero e proprio che ritorna ancora una volta da capofila a gestire i suoni: tutto fila liscio, gli abituali cervellotici arrangiamenti, mischiati alle voci filtrate; milioni di tracce sapientemente amalgamate e le abituali scelte non convenzionali, i consueti Beatles della musica moderna insomma.

“Wil You Return When You Come Down” che apre il filotto è un bell’inizio, qui per rimanere anche nelle prossime e future setlist, “Dinosaurs On The Mountain” è un istant classic, che profuma di già  sentito ma è talmente bella che non è un problema. Su tutte svettano due episodi che da soli valgono, in qualche modo, il prezzo del biglietto, la ballata “Brother Eye”, bellissima, quasi interamente acustica, malinconica e colorata e la claustrofobica “Assasins Of Youth”, una mid tempo song che mischia sapientemente un songwriting classico con reminiscenze elettro e un caotico finale, in mezzo alle perle ci metto anche una riconoscibilissima “Flowers Of The Neptune 6”, un bagno di psichedelia con la ritmica che sembra così, fuori tempo massimo, ma che, in realtà , regala emozioni.

Un disco che aggiunge inevitabilmente poco, data la gigantesca portata della discografia di Wayne Coyne e soci, ma che farà  comunque contenti i tanti fedelissimi estimatori e molto felice chi cerca del sano divertimento sonoro, perchè direi che qui ce n’è a tonnellate.