Da una voce come quella di Matt Berninger, frontman dei The National, ci lasciamo cullare da tempo ormai. è lì, calda, familiare, somiglia a una casa in cui ci sentiamo pronti a ritornare. Se pensavate di essere già annegati nell’emotività dei brani della band di I “Am Easy To Find” (2019), preparatevi a entrare nella personalissima prigione dell’uomo che è alla base di tutte le lacrime versate fino a ora, the “Serpentine Prison”. Questa prigione, rinominata così in onore di questo tubo a forma di serpente che, vicino all’aeroporto di Los Angeles, impedisce alla gente di arrampicarsi e arrivare all’oceano tramite una rete, è sinonimo di una profondità interiore e ulteriore, un livello di esplorazione mai raggiunto prima, che ha, in realtà , ben poco a che fare con limiti e confini. Berninger ha aspettato un po’ prima di iniziare a viaggiare da solo, ha regalato pensieri e parole ad altri, scrivendo per loro e provando a esprimere ciò che LORO sentivano. Ci ha messo un po’ prima di realizzare la sua “‘Stardust’s version’, omaggiando l’album di Willie Nelson, quell’album che gli ricorda tanto il suo papà , lo stesso che ha portato, poi, alla creazione di un album che non parla tanto di lui, parlando, ovviamente, di amore, ma è di sicuro un regalo per lui.
Ed è per questo che la produzione di questo album è stata affidata a Booker T. Jones, lo stesso di “Stardust”, entusiasta dopo le cover mandategli da Matt e dopo aver ascoltato i primi singoli, “Distant Axis” e “One More Second”. Ho temuto, dopo averli ascoltati pure io, che “Serpentine Prison” (che è anche il nome di uno dei singoli, ultima traccia anche se scritta nel dicembre 2018 nel periodo di “I Am Easy To Find”) potesse non esserne all’altezza, ma poi sono arrivati pezzi come “Loved So Little”, come “Collar Of Your Shirt” e sono arrivate unioni incredibilmente giuste, come quella fra Berninger e Gail Ann Dorsey, fra le più autentiche collaboratrici di David Bowie, in “Silver Springs”. Forse questa mi ricorda un’altra unione che ho adorato e cioè quella con Phoebe Bridgers in “Walking On A String”, colonna sonora di “Between Two Ferns: The Movie” di Scott Aukerman.
Ci sono personalità come Harrison Whitford (sempre legato all’ultimo album di Phoebe Bridgers), come Matt Barrick, come Sean O’ Brien dietro a questi 41 minuti di musica, c’è tanto impeto sintetizzato in toni e melodie malinconiche, come questo debutto da solista pretendeva. 41 minuti di calma, 41 minuti per poter fare l’amore, per pensare, per piangere, per ballare, in compagnia o magari da soli, come fa il cantautore nel video di “One More Second”, con le sue scarpe eleganti (che rimandano alla versione disegnata del suo alter ego in copertina) e la sua apparente nonchalance, che poi è più una consapevolezza calma, un rispettoso racconto dei sentimenti, irremovibili e solenni, pur essendo disperati. Non so dove mi trovo passati questi 41 minuti e forse l’ultimo me lo lascio per rimanere in silenzio. Non so dove, ma so che da qualche parte mi sento accolta.
Credit Foto: Chantal Anderson