Dalla cameretta ad Abbey Road.
I Tugboat Captain fanno il grande salto e sembra proprio che non avessero aspettato altro nella vita. Alexander Sokolow guida la sua truppa al passo più ambizioso della carriera ma lo fa mantenendo fede ai suoi principi, con un balzo che non è affatto nel vuoto.
I Tugboat Captain non hanno mai fatto mistero di annoverare i Beatles tra i loro punti di riferimento e questo disco ce lo dimostra in pieno: registrare in quegli studi così rinomati ha scatenato la fantasia melodica e l’estro negli arrangiamenti in una band che, nei lavori precedenti, aveva fatto del DIY una ragione d’essere. Si sono snaturati? In realtà no, perchè se consideriamo il “do it yourself” come “non voglio avere vincoli e mi sento libero di agire e osare“, beh, allora anche in questo caso le linee guida sono pienamente rispettate. I Tugboat Captain sfoderano un campionario di melodie pop irresistibili che abbracciano un ampio pezzo di storia musicale, passando dai Fab Four ai Divine Comedy, con puntate ficcanti e travolgenti in territori cari a Belle & Sebastian così come ai Foxigen. Ma in realtà la tavolozza sonora è ancora più ampia, colta e ricca che fare dei nomi diventa riduttivo e stucchevole. Passare dal gusto teatrale e barocco in odor di cabaret all’indie-pop, dall’art-rock a marcette accattivanti a successive schitarrate glam potrebbe essere un grande rischio, se fatto senza padronanza e controllo, invece i nostri non hanno paura di avventurarsi in questi sentieri con una titolarità che lascia estasiati. Dopo anni passati a muoversi quasi “in sordina” (quasi, ripeto) ecco che “fare le cose in grande” sembra la cosa più naturale che potesse accadere: la gavetta è servita, eccome.
Per melodie e ritornelli mai così accattivanti (e strutture sonore ricche e articolate, con brani che sembrano la somma di diverse intuizioni sonore), coadiuvate da dolcezze al piano, arrangiamenti rigogliosamente pimpanti e una strumentazione che si fa ricca senza però debordare nella confusione, ecco che anche Alexander tocca il suo vertice lirico. Lo sguardo sul quotidiano di un Jarvis Cocker, confessioni a cuore aperto in bilico tra ironia e una specie di autocommiserazione con il sorriso sulle labbra e pure una punta di quel sarcasmo che rendeva adorabile il buon Luke Haines (ma senza il suo spietato cinismo): Sokolow ci narra le sue lotte, le sue malinconie e le sue ansie in un modo così adorabile che l’empatia scatta immediata. Un protagonista (in)volontario di situazioni che sono lo specchio di tanti nostri modi di pensare e di essere.
Mi ricordo di aver letto una vecchia recensione della band che li definiva come “One of the UK-scene’s best kept secrets“, beh, ora con questo “Rut” (a conti fatti il vero e proprio esordio dei ragazzi) è tempo di guardare oltre: il segreto non è più tale, è tempo che tutti vedano, ascoltino e ammirino estasiati!