Spegne oggi cinquanta candeline il primo disco, omonimo, dei Gentle Giant, tra le band simbolo di quella fortunata stagione musicale passata ai posteri sotto l’egida di un genere musicale chiamato “rock progressivo”.

Eppure, i fratelli Ray, Derek e Phil Shulman, pur in possesso di notevoli doti tecniche da autentici polistrumentisti, non ebbero il successo fragoroso che arrise invece a tanti epigoni usciti nello stesso periodo come i Genesis o i King Crimson, tanto per citare dei totem assoluti.

Poco male in fondo, visto che nel corso di questi ormai cinque decenni, il gruppo ha saputo conquistare un culto via via sempre più importante, certificato da una riscoperta discografica che comprende la rimasterizzazione degli album più celebri, l’uscita di vari concerti dell’epoca d’oro (indiscutibilmente quella dei ’70, visto che di fatto la loro attività  in studio si è concentrata in quel lasso di tempo, particolarmente creativo e stimolante) e l’immancabile inserimento di pezzi estratti dai più reconditi cassetti, per la gioia dei vecchi fans e la curiosità  di tanti nuovi inaspettati sostenitori cresciuti con il mito del “Gigante gentile”.

I tre fratelli, originari di Glasgow, potevano vantare un solido background musicale grazie all’esperienza del padre jazzista che li introdusse allo studio dapprima dei strumenti a fiati; tuttavia fu palese l’inclinazione dei ragazzi ad allargare il cerchio delle conoscenze, imparando a suonare così da subito anche il violino, in particolare il più giovane Ray che, essendo nato nel 1949, era ancora minorenne quando nel 1966 diedero vita alla loro prima formazione musicale, i Simon Dupree and the Big Sound.

C’era già  però una vocazione alla sperimentazione, e venne naturale ai Nostri indirizzarsi verso il nuovo filone che stava emergendo sul finire dei magici anni sessanta: il prog infatti riusciva ad abbattere i confini musicali, andando ben oltre quelli che erano gli stilemi già  codificati di certa musica pop e rock.

Per il nuovo corso, arruolati validissimi strumentisti quali il chitarrista Gary  Green, il batterista Martin Smith e il funambolico tastierista Kerry Minnear, i fratelli Shulman adottarono un nome diverso che potesse richiamare, con fare favolistico, la loro musica sempre più destrutturata e complessa.

Gentle Giant, suggerito con grande intuizione e tempismo dal loro storico manager, si prestava perfettamente per sintetizzarne le istanze e le caratteristiche: il sound proposto era infatti di certo potente e a tratti solenne, ma conteneva anche delle delicatezze, delle rifiniture dolci e ammalianti. Il nome scelto diede inoltre spunto al produttore Tony Visconti di scrivere un racconto con protagonista proprio un gigante – che si rivelerà  buono – con i sei ragazzi della band intenti a scrivere le loro canzoni.

La parte dei leoni la fecero gli Shulman, autori della composizione e degli arrangiamenti (coadiuvati da Minnear) del disco, i quali si divisero in modo più o meno equo le parti musicate e cantate, con Derek in questo ultimo frangente a emergere su tutti grazie a un timbro possente e assai suggestivo.

Phil, il più vecchio del gruppo, aveva già  33 anni quando diedero alle stampe il loro album d’esordio, non certo un’età  avanzata ma per la sua indole più pacata sì, specie alla luce del fatto che gli altri componenti erano tutti poco più che ventenni. Mollò il colpo due anni dopo per dedicarsi allo studio e all’insegnamento ma marchiò a fuoco il suono del gruppo, dando un notevole contributo a quelli che a posteriori si possono definire i lavori più compiuti dei Gentle Giant.

Nel debut-album del sestetto britannico sono già  evidenti, per quanto la loro ricerca sonora fosse di fatto in pieno sviluppo, i vari elementi che caratterizzeranno il loro percorso: la commistione di più stili, tra folk, rock e jazz, la forte influenza della musica classica (che si fonderà  in un perfetto incastro con le altre tendenze, ridefinendo il loro significato di progressive), l’approfondimento di tematiche filosofiche e letterarie a completare un quadro narrativo fatto anche di temi più personali ed esistenzialisti.

Un calderone ricchissimo di suggestioni che i Nostri miracolosamente, non solo riusciranno a tenere in equilibrio, ma ne faranno un paradigma per tutta la durata della loro breve ma fulminante carriera.

L’inizio è letteralmente col botto, con quella “Giant” diventata archetipo non solo di un genere musicale ma di un’intera epoca: melodie vocali che si intrecciano e si rincorrono, inserti musicali pazzeschi dei vari musicisti che ci mettono davvero pochissimo a mettere in evidenzia la loro maestria con il rispettivo strumento: in questo caso spiccano la ruggente chitarra di Gary Green e le sinuose e un po’ sinistre tastiere di Minnear. Un tripudio di suoni e atmosfere in una sola traccia, il miglior biglietto da visita dei Gentle Giant lungo sei minuti di musica affascinante e avvolgente.

La successiva “Funny Waves” sembra appannaggio di un’altra band, introdotta com’è da delicati arpeggi di violino e da una voce più mite e rassicurante ma capiremo presto che un tratto della musica dei GG sarà  proprio quello di non assomigliare mai a se’ stesso.

Con il terzo brano “Alucard” (titolo che letto al contrario diventa “Dracula”, una delle influenze letterarie scovate) il gruppo da’ sfoggio una volta di più delle proprie abilità  di polistrumentisti e raffinati compositori: un esercizio di stile insolito, impregnato però di magnetismo.

Più convenzionale, se vogliamo, la traccia successiva “Isn’t It Quiet and Cold?”, in odor di Beatles, acustica e sognante, che fa da preludio al pezzo trainante della raccolta, vale a dire la mastodontica ballad “Nothing At All”, in cui confluiscono in maniera mirabile ingredienti folk e intimi ed altri di matrice hard rock, in un saliscendi emotivo da lasciare senza fiato.

Con i suoi oltre nove minuti, possiamo a ragione definire questa canzone una mini suite, per quanto le parti all’interno della stessa non siano del tutto staccate; magistrale in ogni caso l’assolo di batteria di Smith, accompagnato da uno swingante pianoforte suonato da Minnear. prima che si ritorni in placidi territori acustici a chiudere il cerchio con le medesime note introduttive del brano.

Dopo questa botta emotiva, i Gentle Giant nella successiva “Why Not?” producono un altro momento di felice commistione musicale, facendo seguire a una prima parte nervosa e coinvolgente di stampo chitarristico, un’incursione medievale (altro ripescaggio aulico dei fratelli Shulman, appassionatissimi della storia di quel particolare periodo storico) a spezzare così per pochi secondi la frenesia corale di una delle canzoni più ariose del disco.

I Nostri si permettono il lusso di stupire una volta di più proprio in coda al lavoro, offrendo una versione personale dell’inno nazionale inglese: una cosa a metà  tra il divertissement e il dissacrante, suonato però alla loro maniera, cioè assolutamente entusiasmante.

“Gentle Giant” per essere un’opera d’esordio sorprende oltremodo per la sua maturità  e complessità , per la varietà  di mondi evocati e per la facilità  di scrittura, segno di un’unione di talenti veramente ragguardevole, che a distanza di ben cinquant’anni riesce ancora a lasciarci senza parole.

Così come non ha perso nulla del suo fascino magnetico l’iconica copertina di George Underwood, artista in seguito conosciuto per il suo apporto negli album dell’amico David Bowie.

Gentle Giant ““ Gentle Giant
Data di pubblicazione:  27 novembre 1970
Tracce: 7
Lunghezza: 36: 53
Etichetta: Vertigo
Produttore: Tony Visconti

Tracklist
1. Giant
2. Funny Waves
3. Alucard
4. Isn’t It Quiet and Cold?
5. Nothing At All
6. Why Not?
7. The Queen