di Beatrice Bianchi
Kublai Khan, nipote di Gengis Khan, fondatore del primo impero cinese, chiuso in uno dei più bei e sontuosi e palazzi che la storia ha saputo raccontarci. Il suo unico amico, al di là dell’immensa solitudine in cui regnava ai confini del mondo, è stato Marco Polo, inevitabile viaggiatore che torna al palazzo di Kublai con racconti incredibili. Kublai, senza mai aver lasciato veramente casa sua, si suiciderà , come sempre da solo.
Teo Manzo, cantante e musicista di stanza a Milano, con il suo primo disco, diventa l’alter ego di questo assurdo personaggio spesso dimenticato dalla storia. La storia di Kublai diventa metafora di una storia personale moderna, dove siamo tutti da soli, circondati da cose bellissime e da amici di successo, mentre noi siamo qui, sempre da soli. Kublai e il suo primo disco omonimo, si presenta quindi così, con una premessa che ci apre ad un mondo infinito e sconosciuto. In un atipico alternative rock che si fonde le parole sommerse e conversazioni perdute tra Kublai Khan e Marco Polo. Un disco che va ascoltato, che ci scava dentro perchè non ne capiamo veramente il senso, ma sentiamo che ci scava dentro. Risulta molto strano, in questo 2020 in cui siamo invidiosi, sentimentali e ammirati davanti a sconosciuti su Instagram, ritrovarsi nella stessa ammirazione e invidia che Kublai Khan provava per Marco Polo. La fine non è delle migliori, ma non è difficile da comprendere.
“Kublai” è un disco che non ha un genere, che non si può racchiudere o definire, lontanissimo dal mondo it-pop o da ogni scena o corrente, che si ascolta per coglierne ogni sfumatura, e per accoglierne gli strani personaggi che lo popolano. Tra ricerca sonora che si rifà alla grande scuola del cantautorato e alle influenze che ci ha lasciato sotto pelle chi ha ascoltato i gruppi rock italiani degli anni novanta, ma poi ci sono le storie dimenticate dell’Oriente del 1200, un tale Vincenzo, Marco Polo e emozioni che straziano ne “Le soglie del dolore”.
Catartico.