Li avevamo messi alla prova qualcosa come due anni fa, gli Shame, con il loro esordio “Songs of Praise“, e in poco tempo i ragazzi inglesi erano riusciti ad entrare in quella cerchia di nuove leve del punk britannico (insieme a Fontaines D.C. ed affini) contribuendo a dare al movimento nuova linfa vitale e a catalizzare crescente attenzione su di sè.
Non deve essere stato facile per Steen e soci passare dall’incendiare palchi in qua e in là per venue di mezza Europa e non solo, scalando come gradini le gerarchie degli slot dei vari festival musicali, a rimanere bloccati in casa per via di questa, maledetta, pandemia mondiale.
Di necessità , ne fecero virtù, o almeno ci provarono. “Drunk Tank Pink” è il loro secondo album.
Dopo il tirato attacco di “Alphabet”, un altro singolo già diffuso prima dell’uscita del disco: “Nigel Hitter”, che oltre che con gli immancabili The Fall e Wire, flirta con trame più care a gente come Talking Heads e XTC (e ai più recenti Parquet Courts). Certo, una buona aliquota in termini di novità , rimasti al post-punk sudato e viscerale dell’esordio. E la seguente “Born in Luton” con i suoi inquieti cambi di passo e registro, l’irriverente “March Day” spinta arzilla dalle chitarre e il proto-punk smanioso di “Water in the Well” (con tanto di sguaiate grida da pub alle spalle) confermano questa variazione di forma.
Se a livello strumentale si notano buoni passi in avanti in termini di tecnica e stile, ci avrà messo del proprio sicuramente anche James Ford dalla cabina di produzione, il cui curriculum parla da solo nonostante l’ancora giovane età ed il cui nome è sinonimo di brillantezza ed intraprendenza: la resa appare sempre curata, ed ogni traiettoria trova la strada pronta per essere battuta.
Avanti con “Snow Day” che apparecchia invece su coordinate del post-punk più plumbeo e minimale per lo sprechgesang di Steen, per poi tarantolarsi ed intrecciare chiassose le chitarre alla sezione ritmica fino agli oltre 5 minuti della sua lunghezza, mentre le acque si calmano con la successiva, e maggiormente introspettiva, “Human, for a Minute”, per quindi riagitarsi poco dopo con la sciatta fiammata garage-punk di “Great Dog” e quella di “6/1”: quanto sarà mancata la dimensione live al cantante Charlie Steen (che dopo 3 canzoni si ritrovava inesorabilmente madido e a petto nudo), al bassista Josh Finerty (anche lui pronti-via saltellante sopra le casse ed agitato come un folletto su e giù per il palco) e alla band tutta, che aveva macinato un numero impressionante di date fino allo stop dei concerti, Dio solo lo sa.
Chiudono i giochi la nevrotica “Harsh Degrees” e soprattutto la foschia post-punk di “Station Wagon” tagliata solo da rasoiate di elettrica, che con qualche tocco di piano apre la propria seconda metà ad una crescente, tachicardica e rumoristica rabbia che, volutamente, non trova il minutaggio per deflagrare, fino a spengersi su se stessa.
Un album che riconsegna una band carica di voglia di fare, obbligata a gestire l’entropia alla quale è costretta dai tempi che corrono per dar suono e voce al proprio disagiato spleen da Generazione Z: e se siamo ben lungi da quella maturità , sia umana che artistica, che si cerca troppo spesso di appioppare ai giovanotti di turno già dal secondo album, gli Shame sono comunque lì, pronti a crescere ancora. Aspettano solo che la gabbia si apra di nuovo.
Photo By Holly Whitaker