Dopo l’assalto a Capitol Hill dei giorni scorsi è come se fosse stato chiaro a tutti il livello di pericolosità a cui poteva andare incontro il popolo degli Stati Uniti d’America sotto la sciagurata amministrazione Trump, un delirio di prepotenza forgiata sul qualunquismo spregiudicato e sulla falsa acclamazione dei diritti non tanto e solo del real american, ma degli egoismi più reconditi, che partono dalle difficoltà economiche ma ben presto si allargano alla supremazia anche della stirpe.
Momento migliore per una serie come Il complotto contro l’America non poteva esserci, dove grazie all’artefizio del ribaltamento della Storia del secondo conflitto mondiale, questa sfarzosa produzione a stelle e strisce ribadisce come le cose sarebbero potute andare, come la meschinità non possa avere confini quando si lasciano esacerbare le paure, quando giorno dopo giorno si lascia andare un singolo centimetro di libero pensiero.
Tratto dal romanzo omonimo di Philip Roth, la miniserie andata in onda l’estate scorsa su HBO negli States è sicuramente il più ardito modo dell’establishment hollywoodiano di combattere la triste egemonia culturale trumpiana e di rivendicare il diritto e soprattutto il dovere di un cinema di lotta e di missione, un cinema si direbbe tout court impegnato, di sensibilizzazione e di approfondimento della realtà circostante.
Ancora più mirabile l’esito quando gli eventi narrati sono del tutto falsati rispetto alla vera Storia, ma il racconto dei fatti di questi sei episodi diventa nella serie ancora più forte del ricordo, più presente della verità , immergendo il sentire comune americano in quello che avrebbe potuto succedere e ovviamente di diretto rimando in quello che sarebbe potuto succedere ora.
L’ascesa del mitico aviatore Lindbergh alla presidenza degli Stati Uniti diventa il contesto in cui si svolgono le vicende di questa comunità ebraica agli inizi degli anni ’40 quando la mancata partecipazione al conflitto mondiale e l’avvicinamento indolente al regime nazista crea dentro gli USA l’humus favorevole per la prosperità del rigurgito nazionalista dell’America first che in poco tempo creerà le prime discriminazioni razziali in un crescendo sempre più cruento di violenze ed atrocità nei confronti della popolazione ebraica. Non ricorda forse qualcosa di recente?
Come da tradizione del miglior cinema di Hollywood, questa narrazione viene declinata nel personale, secondo il principio per cui il cinema ci presenta la Grande Storia interpretata all’interno dei nuclei familiari, in questa serie quello dei Levin, in particolare del padre Herman, dal cugino Alvin e dal rabbino Lionel Bengesdolf, che incarnano 3 modalità di comportamento di fronte alla minaccia nazista. Herman (Morgan Spector) testardo e cocciuto difensore di ogni momento di discussione sui principi e sulle basi del sistema democratico americano, sa che deve difendere i propri affetti, e lo fa tenacemente non indietreggiando di un millimetro, opponendo la forza della ragione all’umiliazione degli eventi, anche a discapito dell’unità del nido degli affetti; Alvin (Anthony Boyle) più semplicemente non riesce a tollerare l’inerzia e la ragione e va eroicamente a combattere in Canada per dare un contributo reale alla fine del totalitarismo intellettuale, scelta che poi riverserà addosso al cugino per la sua incapacità di azione; il rabbino (John Turturro) esprime invece la sottile e viscida tentazione di opportunismo politico e di subdola ambizione del potere che nelle situazioni di fragilità istituzionale possono attirare personaggi come chi nel suo caso detengono la possibilità di influire sulle masse, anche magari resettando i valori per i quali questa facoltà era stata concessa.
Il popolo ebraico quindi assurge a esempio dell’obiettivo dell’attacco della supremazia riduttivamente chiamata bianca dietro la quale vi è lo smantellamento dei valori fondanti l’istituzione americana nel complesso e solo la tenacia dei singoli, della somma dei singoli come la difesa del pensiero libero di Herman, le azioni e i blitz di Alvin (straordinaria la scena del presunto abbattimento dell’aereo di Lindbergh) ma anche e forse ancor più importante il ruolo di collante della madre interpretata da una sempre presente Zoe Kazan possono fare fronte alla potenza della propaganda: questo è il principale messaggio di questa serie, un’operazione dal punto di vista concettuale esemplare, che si snoda in una continua espansione del pathos e della profondità narrativa. Non solo, trattandosi di fantapolitica, vi è una paradossale perfetta contestualizzazione delle vicende, ma la serie migliora di puntata in puntata, coinvolgendo in modo esponenziale lo spettatore con il crescendo dell’importanza dei fatti esposti, dando perfetta sequenzialità alle premesse iniziali, chiudendo il cerchio chiaramente con un happy ending devotamente hollywoodiano, ma con un senso di liberazione vero, un compiacimento del finale che sa di appartenenza, che allinea lo spettatore consapevolmente dalla parte degli uomini e delle donne che in qualche modo resistono.