Quel mattacchione di John Dwyer, instancabile agitatore del vero underground a stelle e strisce, non contento delle dinamiche vicende dei suoi Thee oh sees ora solo Osees in uscita da pochissimo con un nuovo album, ci fa capire con questo Witch Egg che c’è spazio anche per qualcos’altro nel suo caleidospcopio di suoni, oltre al garage e ad uno smidollato post punk fin qui proposto.
Trattasi di album interamente strumentale, a titolo del nostro beneamino più alcuni compagni di scuderia (Nick Murray, Brad Caulkins, Greg Coates e Tom Dolas) elencati liberamente nei titoli delle canzoni, come a voler sottolineare la coralità dei contributi che si materializzano in canzoni effervescenti, libere e sognanti, molto metropolitane, jam apparentemente improvvisate di gente che si sente lontano un miglio che ci sa fare, buoni per la presa diretta e via. A volte sembra roba weird, ma forse è per via della produzione anche quella low profile quasi da registrazione dal vivo, mentre qui c’è tanta varietà , del space rock alla Can, qualcosa dello Zappa jazz fusion, rallentamenti e progressioni dilatate con tanto tanto sax no wave sempre così cool. Dwyer si abbandona ad un suono vibrante, lontano dai sui canoni più da cantina, ma sempre con la stessa attitudine di libertà artistica, qui diretta verso un universo più liquido da fine anni 70, sempre ad alta carica di acidità , sempre nello spirito del right here right now.
Ci sono i ritmi funkadelici in canzoni come la doppietta iniziale Greener Pools e City Maggot, splendide colonne sonore di una notte urbana densa e fumosa, di un club dove il chiacchericcio e la sensualità brillano al suono di una batteria incalzante, sempre il sax in linea bassa, schizzi di synth, brani sognanti e frenteici, di un impulso quasi danzereccio.
L’approccio rimane sempre molto session fine anni 70, anche in cose oniriche come la fascinosa Baphomet dove una batteria incalzante sembra accogliere navicelle spaziali al ritmo di una fusion contagiosa o Arse con ritmo up tempo,basso penetrante e rincorsa di fiati, o altri episodi anche ombrosi e più deliranti tipo la title track, perfetta liturgia funebre o la cupa Sekhu che sa di melmosi bassifondi.
Witch egg potrebbe anche finire nello spazio classificabile come “divertissement”, ma qui non c’è sensazione di opera da riempitivo, nè di sbracamento, il mood delle 8 tracce è omogeneo, si respira concentrazione di intenti e feeling, certo, molto undeground e mai banale, ma insomma da Dwyer e compagni ci aspettiamo sempre di essere sorpresi, stimolati, e come dicono non possiamo rimanere sempre “sulla nostra strada” (On your own way now, ultima canzone, conciliante jazz alla Davis periodo Zawinul, degno commiato dell’esperimento).