Quali sono gli ingredienti necessari per la realizzazione di un capolavoro del rock? A giudicare dalle nove tracce di “Goat”, il monumentale secondo album dei Jesus Lizard, basta davvero pochissimo: una voce, una chitarra elettrica, un basso e una batteria. Aggiungete abbondanti dosi di rabbia, brutalità  e follia per ottenere un suono crudo, asciutto e affilato come la lama di un rasoio.

Le nove tracce di questo disco penetrano nelle orecchie degli ascoltatori con la forza di un pugnale arrugginito, dando origine a infiammazioni purulente e lacerazioni impossibili da suturare. Il produttore Steve Albini, quasi fosse un medico esperto e meticoloso, considera il quartetto texano alla stregua di un paziente un po’ fuori di testa da tenere sotto controllo. Il suo è un lavoro di spietata precisione; persino chirurgico, se si pensa a quanta attenzione viene riservata a ogni singolo elemento dell’insieme. Le cure però finiscono per peggiorare la situazione, rendendo ancor più efferato un sound ostinatamente malato e schizofrenico.

“Goat” è un album che vive di squilibri e dissonanze, in costante bilico tra la bruciante passione del post-hardcore e la furia asettica di un noise rock intriso di tradizione a stelle e strisce, contaminato com’è da brandelli di blues, garage e country. A fare da collante, la violenza cieca e disumana che si insinua tra le crepe di un calderone di generi sempre pronto a esplodere, gravato dal peso di una tensione che resta altissima dal primo all’ultimo secondo dell’opera.

Per i Jesus Lizard del 1991, gli strumenti musicali non sono nient’altro che micidiali armi da sventolare minacciosamente sotto il naso dei coraggiosi che li seguono. Nelle mani di David William Sims le corde del basso si trasformano letteralmente in un panno abrasivo: le linee ossessive e pesanti che fanno da spina dorsale a “Then Comes Dudley”, “Monkey Trick” e “Nub” grattano via ogni possibile evoluzione melodica, quasi fino a far emergere la sanguinolenta carne viva del rock.

Uno Steve Albini quanto mai sadico, invece di coprire le ferite con dei cerotti, le allarga a dismisura senza preoccuparsi minimamente delle inevitabili infezioni. Il sound diventa morboso e le sofferenze abbondano: il cantante David Yow non fa altro che urlare, sbraitare e piagnucolare, svolgendo tra l’altro un fondamentale ruolo da direttore d’orchestra ““ se così possiamo chiamarlo ““ nel controllo e nella regolazione delle dinamiche di brani che, a volte ma non sempre, si alternano tra esplosioni di rabbia e parentesi di apparente “quiete” (“Lady Shoes”, “Karpis” e la sinuosa “Rodeo In Joliet”, forse l’unica canzone simil-orecchiabile del disco).

Tra le trame ritmiche non particolarmente articolate ma efficacissime del batterista Mac McNeilly si inseriscono, come coltelli che squarciano di netto vene pulsanti, i riff di chitarra acuminati e pieni di spine di un Duane Denison in stato di grazia, protagonista assoluto di alcuni tra i pezzi migliori in scaletta (da non perdere “Mouth Breather”, “Seasick” e “South Mouth”). Le sue plettrate assassine riportano alla mente quei mesi di transizione immediatamente precedenti all’ascesa del grunge: un’epoca d’oro dell’alternative rock, in cui si poteva essere veri innovatori semplicemente accostando influenze o spunti apparentemente inconciliabili (in questo specifico caso, lo stile surf di Dick Dale e quello post-punk di Andy Gill). Un periodo di ribollente creatività  che ci ha regalato i Jesus Lizard e il loro “Goat”, un capolavoro di violenza sonora destinato a non invecchiare mai.

Data di pubblicazione: 15 marzo 1991
Tracce: 9
Lunghezza: 30:24
Etichetta: Touch and Go
Produttore: Steve Albini

Tracklist:
1. Then Comes Dudley
2. Mouth Breather
3. Nub
4. Seasick
5. Monkey Trick
6. Karpis
7. South Mouth
8. Lady Shoes
9. Rodeo In Joliet