C’è un libro di Steven Hyden – critico musicale americano – edito dalla Rizzoli, che potete trovare in questi giorni in libreria, che è incentrato su “Kid A”, quarto album dei Radiohead. Un album pubblicato nel 2000 che anticipava alcune delle caratteristiche che, nel bene e nel male, avrebbero contraddistinto gli anni del nuovo millennio. Nato nel luminoso bagliore mediatico e commerciale del precedente “OK Computer”, “Kid A” fu un album molto più criptico ed oscuro, oltre che un vero e proprio punto di rottura rispetto alle sonorità che avevano consumato e dato lustro al decennio precedente, una sorta di età dell’oro del rock che si connetteva direttamente allo spirito brutale e selvaggio degli anni Settanta.
“Kid A” fu, invece, una sorta di creatura mutante, nata dalle ceneri di ciò che erano stati gli anni Novanta; un album che cercava di connettersi a nuovi avamposti creativi, estranei al rock esplosivo e viscerale; avamposti dai quali generare nuove idee, sonorità , trame, rumorismi, visioni e sperimentazioni che sarebbero state alternative alla stessa cultura rock. Emanazione della rete, il bambino-A se ne servì per proliferare e diffondersi ovunque la tecnologia dell’epoca glielo consentisse, raggiungendo chiunque potesse collegarsi ad Internet ed offrendo una musica eterogenea e rarefatta nella quale le componenti jazzistica, classica e d’avanguardia, oltre che l’utilizzo massivo di macchine e synth, assumevano molta più influenza ed importanza rispetto alle classiche sonorità rock, blues, punk, metal e garage del recente passato.
Le chitarre, con i loro riverberi e le loro distorsioni, non erano più al centro del progetto, ma potevano essere tranquillamente sostituite dalle trame elettroniche dei sintetizzatori, dalle ritmiche ossessive delle drum machines, oltre che da rarefatte e mimali sezioni orchestrali di fiati ed archi, che anticipavano quello che, da lì a poco, sarebbe divenuto un mondo estremamente fluido e dinamico, ma – purtroppo – anche un mondo senza più alcun riferimento certo e concreto, nel quale ogni verità sarebbe stata passeggera e transitoria e la nostra stessa vita sarebbe diventata estremamente superficiale e precaria.
Poche parole; un sentirsi qui, ma anche altrove; un essere fiducioso nei propri mezzi, ma anche la sensazione di sentirsi inadeguato e non fare mai abbastanza; un finto ottimismo che non faceva altro che nascondere i nostri errori passati; una felicità ed un senso di completezza che continuavano a scapparci; un sentirsi costantemente vecchio, decrepito e sul punto di estinguersi per sempre; queste sono le percezioni catturate dal disco, percezioni che anticipano lo spirito di un’epoca che avrebbe visto, in pochi anni, profondi sconvolgimenti sociali, politici ed economici. Sconvolgimenti che avrebbero permesso un enorme rimescolamento sociale, oltre che il definitivo superamento di barriere culturali figlie del secolo precedente, ma che avrebbero, parallelamente, riscritto, spesso in maniera peggiorativa, le regole stesse del lavoro, superando concetti divenuti retrogradi come quello di fabbrica, di capitale, di risorsa, di produzione e proiettando la società , nella sua interezza ormai globale, verso un’economia artificiale; un’eco-sistema fatto soprattutto di byte, di apparenze, di opinioni, di trend, di una mole mastodontica di dati ed informazioni, che, in un attimo, se sfruttate nel modo giusto, avrebbero potuto tramutarsi in un grandioso successo o in un epocale fallimento, in ingenti perdite o in stupefacenti guadagni.
“Kid A”, dunque, riesce a prevedere questo fantastico secolo, il suo enorme potere, ma anche i pericoli e le minacce che sono connesse ad un suo sfruttamento disumano e spregiudicato.