Insomma, il film che si porta via tutto, fa castello e riempie finalmente i cinema dopo il letargo pandemico, poltrone impolverite fiere di ospitare folle febbrili tese a puntare, ancora una volta dopo mesi bui,   gli occhi e parte del proprio preziosissimo tempo sul grande schermo che accoglie  il Leone d’Oro 2020, l’Oscar come miglior film e le altre statuette.

La visione conferma parzialmente i meriti di questo “Nomadland” ma anche la sensazione che il trionfalismo che accompagna in nuce questa seconda prova di   Chloè Zhao profumi molto di establishment, di un certo tipo di valutazione paradigmatica che amplifica la qualità  di un tipo di prodotto, come questo, che ha tutte le caratteristiche per essere papabile di premiazione nei maggiori festival internazionali, ma che affronta in modo superficiale e a volte confuso i temi trattati.

La regista di “The rider” qui indaga il peregrinare di Fern, questa matura “ex working class hero” che affronta la perdita del lavoro e del marito col suo van, girando gli States in lungo e in largo, inserendosi nelle comunità  di viaggiatori seriali, imparando a sopravvivere, trovando ferocemente risposte alle sue domande. La ricerca di queste risposte  si snoda attraverso i diversi incontri che Fern ha durante questi spostamenti e questi dialoghi assieme alle diverse sequenze in cui si abbandona alla magnificenza dura e accogliente della natura risultano probabilmente la parti più riuscite del film. C’è calore nelle parole di Swanky, piccola bambina 80enne che ci commuove in punto di morte quando ci parla dell’importanza dei ricordi, narrando un episodio della sua adolescenza e volendo riviverlo per morire in pace e c’è sincero trasporto quando Fern sa che non può sottrarsi dall’abbraccio delle onde impetuose, da questa natura forte e miracolosa, l’unico rapporto che è in grado di riconoscere  capace di dare pace e convinzione. E qui la Zhoe convince con i suoi primi piani sui personaggi e con i piani lunghi sulle distese desertiche o sulle scogliere tempestose nel tradurre visivamente un linguaggio emotivo.

Ma più scorre il film, più ci si accorge che probabilmente ci si aspettava qualcos’altro, il tema del nomadismo diffusamente evocato non viene mai approfondito, si parla generalmente di viaggiatori non per scelta ma per effetto di cause, o meglio sfighe diverse, per lo più perdita di lavoro o malattie, senza dare nessuna impronta morale o sociologica al fenomeno tra l’altro molto diffuso e conosciuto negli States, dove rappresenta uno stile di vita, un rifiuto di appartenenza a dei canoni definiti dello status quo, non solo un rifugio quasi forzato da disgrazie imponderabili.

In tutto questo, la chiara critica contro una società  capitalistica, che poteva essere la base per affrontare compiutamente il tema nomadismo, non viene mai argomentata pienamente e rimane sempre ai margini del racconto, senza evitare anzi il curioso paradosso per cui il magazzino di Amazon dove si capisce che Fern è impiegata in modo limitato ma costante durante l’anno risulta, alla fine della fiera, l’unica certezza che può permetterle di continuare la sua vita on the road!

Rimangono un certo piglio documentaristico, apprezzabile nel dettaglio dei meccanismi di sostentamento all’interno dei camping, nella stessa descrizione minuta della composizione dei furgoni, in un impianto che scema verso un finale narrativo piuttosto scontato, che riesce in parte all’inizio ad imprimere una vena di sincera desolazione verso queste condizioni di vita, ma che si accompagna anche a delle forzature emotive, vuoi lo scontato tentativo   della relazione con l’ottimo Strathairn, per non parlare del mellifluo accompagnamento sonoro di un Ludovico Einaudi, al solito evanescente e poco incisivo.

Si rimane potremmo dire congelati lungo lo scorrere delle vicende, in una declinante suggestione estetica che cozza con la drammaticità  degli eventi, che neanche la pur encomiabile Frances McDormand con la sua maschera a volte un pò troppo civettuola qui riesce a raddrizzare, una McDormand ogni presente, che produce il film e che si intesta l’Oscar, in una interpretazione fatta su misura si dirà , encomiabile quando si tratta di dare fisicità  ai diversi lavori di Fern, forse un pò eccessiva di smorfie in primo piano, altro segnale  dello stile rassicurante della Zhao.