Marco Sonaglia non è uno così, preso dalla strada.
O meglio, sì; Sonaglia è uno di quei cantautori che cantano la strada perchè la vivono dentro, e perchè ne hanno percorsa tanta; una strada che è scuola, lotta e lavoro, militanza culturale prima che artistica, umana prima che politica. Le parole usate, qui e in Marco Sonaglia in generale, mica sono casuali.
Abbiamo un disperato bisogno di riscoprire la parola, come corpo significante oltrechè “guscio sonoro”, come avrebbe detto Ionesco; la parola come voce del verbo (inteso in senso latino, qui) “poesia” e non solo come puntello utile a tenere in piedi l’ennesimo tormentone di turno. La Parola con la P maiuscola, che esplode dentro come un Petardo e risveglia qualcosa che è lì sotto e preme, sepolto da strati di Polvere.
Qualcosa, che ci faccia ricordare che la Poesia ha bisogno di Parole nuove, e di voci capaci di portare la croce della tradizione al di là del Golgota di quest’amara e sfocata contemporaneità afasica; parole che cadano come macigni, schiacciando la nostra sempiterna riluttanza all’impegno – come persone, come ascoltatori e quindi come cittadini.
L’importanza della missione, oggi, sembra essere più che mai incombente e minacciosa: salvaguardare il nostro futuro da quest’amnesia ottundente che mette a repentaglio il domani, diseducandoci alla memoria; tutto questo, attraverso una Canzone che torni ad essere d’Autore, nell’era in cui chiunque si definisce – e non senza una certa immodesta fierezza – cantautore.
Di tutto ciò, ma sopratutto del suo ultimo disco, abbiamo parlato con Marco Sonaglia. Un simposio che merita di essere letto.
Ciao Marco, benvenuto su Indie For Bunnies. Per noi è un piacere averti qui: il tuo è un curriculum importante, che ci costringe ad alzare fin da subito il livello della conversazione. Cosa significa, oggi, fare canzone d’autore?
Bisogna anzitutto mettersi d’accordo su cosa intendiamo per “canzone d’autore”. Ogni canzone ha uno o più autori e, tecnicamente, Gigi D’Alessio rientra nella categoria di cantautore. Sanremo è sempre stato, e lo è tutt’oggi, pieno di “cantautori”. Il temine serve per definire non tanto una modalità compositiva (se fosse per quella, erano cantautori fin gli aedi ellenici), quanto piuttosto una qualità . Cosa si voleva individuare, quando la definizione nacque, con l’espressione cantautore? Non solo chi compone e insieme interpreta, no. Il “cantautore” così inteso è raramente esistito; pensiamo al Dalla che canta Roversi o il Gaber che canta Luporini! Per costoro non sarebbe valida una definizione di cantautori che intenda “chi compone ed esegue” in quanto canto e musica sono loro, ma non le parole. O pensiamo a tutte le canzoni di De Andrè scritte con tantissimi collaboratori. Eppure sono nomi emblematici di ciò che è detto, con una parola che meno si usa e meglio è, “cantautorato”. Quando la formula venne forgiata, addosso a nomi come Paoli, Bindi, Meccia, si intendeva porre l’accento su una nuova e più alta qualità di canzone. Emergeva un fenomeno di canzoni che parlavano in controtendenza rispetto ai valori sventolati dalla canzonetta di regime. Erano brani densi di denuncia, di carica critica, alcune scandalose. E questo canto in “contraltare” si nutriva di una scrittura poetica, ricercava formule espressive che nobilitassero l’arte della canzone ridotta alla retorica di un’Italietta post-fascista, democristiana, borghese. Si cercavano riferimenti nella letteratura, tra i poeti rivoluzionari, oltralpe presso gli chansonniers. Ecco, è questo tipo di canzone, la canzone ambiziosa, critica, ricercata, altamente espressiva, che è oggettivamente in crisi. Nel senso che se ne produce poca e non solo non viene sovvenzionata, ma neanche seguita. Non ha nemmeno un gratificante pubblico di base. Ma cosa si può dire? Ostinarsi oggi a fare, in questo senso, “canzone d’autore” per me significa essere quello che sono, fare quello che mi piace. Amo la musica, amo la canzone per merito anche di quei cantautori. Io sono convinto che la canzone d’autore ha contribuito a formare anche politicamente un certo “popolo della sinistra”, specie per le generazioni più giovani a cui è dato trovare più rivoluzione nelle canzoni che nei programmi di certi partiti. Se il mondo della canzone fosse rimasto a “Tutte le mamme del mondo”, non so”… Probabilmente mi sarei occupato solo di operistica.
La parola “cantautore” ha, nel corso dei decenni, cambiato a più riprese significato. Penso ai Cantacronache, alla prima generazione di cantautori, da Modugno a Tenco, e poi alla svolta politica del post-’68. Penso poi ai processi ai cantautori degli anni Settanta, agli anni Ottanta e al riflusso, alla resa di tante vecchie glorie e ancora alla nascita di nuove stelle come Bersani o Carboni, a cui sembra essere tanto debitrice la scena mainstream di oggi. Arriviamo così al 2021: dove si nasconde, oggi, il “cantautore”? Basta semplicemente essere autori delle proprie canzoni, per definirsi cantautori? Perchè allora oggi, quest’ultima, sembra davvero essere una figura in enorme riscoperta, vista la totale modalità “solispistica” con cui le nuove leve producono la propria musica.
Tecnicamente, se il sopraccitato D’Alessio viene a dirmi “sono un cantautore”, non posso contraddirlo. Posso rispondere che è una tipologia di cantautore che a me non piace. Come dicevo, ci sono due modi di designare cosa sia il cantautore. Quello tecnico-meccanico, che prende in considerazione la sola modalità di composizione, il “me la suono e me la canto”, se mi si passa la banalizzazione di una questione che in effetti è meno trascendentale di quanto appaia”… E poi c’è il modo qualitativo. Che è quello che tendo a usare io perchè ritengo sia quello giusto. Porto l’esempio di Rodolfo De Angelis, “cantautore” del Ventennio, fascista e perfettamente allineato. E altri come lui che componevano musica, testi e interpretavano. Perchè non nacque con lui la definizione di cantautore, pur se rispondeva a tutte le prerogative tecniche? E sia prima che durante e dopo il fascismo, di “cantautori” ne sono esistiti a iosa. è qui che capisci che la definizione di cantautore è nata in un momento storico preciso (il Boom economico) per descrivere chi si opponeva a una determinata canzone conformista e perbenista.
Cantautore per me non è solo chi canta e scrive, ma chi canta e scrive canzoni di spessore, in certa misura inseparabili da un universo di valori etico-politici generale. E ce ne sono ancora, potrei farti un elenco infinito di splendidi autori ignoti, confinati nei microcircuiti dell’autoproduzione o della nicchia… Uno di questi è qui che ti parla. Anche quando parlano d’amore, i “miei” cantautori esprimono sempre una visione dei rapporti umani, sessuali, sociali, culturali che si oppone alla ideologia dominante. Se non fosse stato per la ricerca espressiva, i contenuti di denuncia e di critica, una vera carica rivoluzionaria del messaggio, insomma tutto ciò di cui manca il citato solipsismo cantautoriale corrente (e la mancanza si sente eccome) sono convinto che la definizione di cantautore non sarebbe mai nata. La cosa ha del paradossale. Tanti si ascrivono nella categoria del cantautore nonostante quest’ultima, fosse stato per loro, non sarebbe mai sorta.
“Ballate dalla Grande Recessione” è il tuo terzo disco , realizzato su testi di Salvo Lo Galbo. Dalle note stampa, emerge la tua volontà di riportare poesia e musica nell’antico alveo di un’oralità che richiama al rapsodo, all’aedo. Esiste ancora, secondo te, una comunità a cui si può riferire un canto del genere?
Sì. è la “comunità dei compagni” e di chi è appassionato di canto politico o anche semplicemente di poesia. Perchè trovo i testi di Lo Galbo tanto belli che penso soddisfino perfettamente anche le esigenze “contemplative”. Io garantisco che un pubblico di base, benchè esiguo, questo genere di canto lo vanti. Il problema è di diffusione. Oggi più di ieri, il circuito mainstream sforna delle canzonacce irricevibili e sono sicuro che siano irricevibili anche per la sensibilità estetica più guastata, nel tempo, da questo tipo di produzione. Come va che certa paccottiglia ti diventa l’hit di stagione? Martellando, sparandotela mille volte su radio, tv, viralizzandola in rete”… Ti infilano in testa la peggiore porcheria, qualcuno comincia a cantarla, poi qualcuno di più, e tutto un Paese finisce per farsela piacere. è plagio, è una vera e propria operazione di plagio. Ed è l’estremo opposto di quanto accade con le pur buone canzoni che però non orbitano intorno al mainstream. Non vengono diffuse, non vengono proposte, le senti una volta ben che vada e basta. A meno che non ti metti di proposito a cercarle e ricercarle su internet o non fai girare il CD che (e qui si aprirebbe un capitolo a parte) si acquista sempre di meno. Ecco, il sistema di comunicazione non aiuta e ti stronca. Perchè le canzoni di una certa complessità necessitano di diversi ascolti affinchè se ne possano intercettare le diverse dimensioni, si riescano a decodificare le metafore, si abbia il tempo di apprezzare i giochi di costruzione melodica, poetica, rime interne, rimbalzi fonici, giochi musicali, chè la poesia è tra le prime cose musica. Il non passare per radio, il non passare per la televisione, il non essere sufficientemente pubblicizzati in rete, penalizza. Non arrivi, semplicemente. Rimani confinato in una nicchia. E anche all’interno della nicchia, vi è uno strato superiore, uno intermedio e uno inferiore. Io non ho il velleitarismo della nicchia, la accetto perchè è il solo spazio per poter fare quello che faccio, come lo faccio. Ma se ho intrapreso questo mestiere è perchè credo che, nei suoi limiti, possa contribuire a cambiare qualcosa, cambiando le teste, le sensibilità . Ma va da sè che, perchè ciò avvenga, serve arrivare a quante più persone possibili. Le masse fanno la rivoluzione. Ed è proprio ciò che i signori del mainstream impediscono.
Di certo, la pandemia sembra essere uno dei temi importanti di un disco denso, trattati con il distacco poetico giusto, che mette in fuga la retorica. Come hai vissuto la pandemia? Credi che tutta questa “solitudine” abbia generato una forma di felice introspezione, utile a riappropriarci della nostra capacità di riflessione – e magari, così, farci riavvicinare a certi ascolti – o che ci abbia resi solo più soli e in cerca di un disperato disimpegno?
La pandemia ha inasprito le disuguaglianze sociali e sta alle organizzazioni politiche intercettarle e coinvolgerle in un processo di rilancio del movimento di classe. Su come in generale si siano vissuti i lockdown, posso parlare per me. Ho suonato, ho letto, ho scritto, ho guardato tanti bei film, ho registrato, ho condotto le mie ricerche nei campi che mi interessano e mi sono tenuto sempre aggiornato. E ho coltivato amicizie per le quali, nei tempi della cosiddetta normalità , non si ha mai il tempo che si vorrebbe. Per il resto, no, non credo che la pandemia abbia fatto bene. Perchè, se non si hanno gli strumenti di fondo per analizzare una fase e analizzare se stessi e la propria posizione all’interno di quella fase storica, nemmeno un cataclisma può produrre un risveglio di coscienze.
Ma tu, Marco, ci credi ancora alla Rivoluzione? A volte, vien da pensare che la rivoluzione sia diventata solo una faccia stampata da qualche brand alla moda su magliette rosse vendute a venticinque euro l’una. Una svendita rivoluzionaria, insomma”… Quindi, la domanda diventa: se ancora credi alla Rivoluzione, quali saranno gli strumenti necessari a combatterla? E su quali fronti?
Nel 1945, cioè storicamente l’altro ieri, l’Italia era sull’orlo della rivoluzione. All’abbattimento del fascismo, i comunisti non volevano far seguire questa socialdemocrazia meschina e ipocrita che ha sin dagli albori riaffermato il capitalismo e la divisione in classi. Si voleva un’Italia socialista. Da quando il Partito Comunista d’Italia di Gramsci e Bordiga viene sostituito col Partito Comunista Italiano di Togliatti, e tanto più da quando questo si trasforma nel Partito Democratico, la storia della sinistra governista in questo Paese è una storia di continui e sempre più infami tradimenti. Come risultante di questa parabola, non è fuori dal mondo il fatto che il proletariato, tradito e confuso, si sia passivizzato o reazionarizzato. Le rivoluzioni sono scadenze obbligate nel calendario della storia. Ma sono processi che riguardano gli uomini e dunque gli uomini debbono occuparsene. Bisogna far capire alle classi subalterne che il capitalismo è in una recessione senza fine, che non supererà se non al costo di altre barbarie, di guerre. Ma farlo comprendere non è facile. è da Togliatti che di rivoluzione in questo Paese non si parla più. Se non avessimo dato luogo all’Autunno Caldo, contravvenendo a tutti gli appelli alla moderazione e alla concertazione parlamentare delle sinistre di sistema, non avremmo neppure conquistato quella pochissima roba che fu lo Statuto dei Lavoratori, che oggi la borghesia ci sottrae con gli interessi. Quindi occorre che le avanguardie politiche istruiscano il loro popolo di riferimento, la classe lavoratrice. Solo quando quest’ultima tornerà a segnare un protagonismo nei rapporti sociali, nella cultura, nella storia, si assisterà a un’inversione di rotta, a un cambiamento radicale nella sfera pubblica e privata, al superamento di tutta la barbarie che ci attanaglia. Finchè questa egemonia politica non si stabilirà , la narrativa dominante sarà quella reazionaria.
Il disco, tra l’altro, nasconde in piena vista una dedica sentita e speciale. Crediamo sia giusto, qui, lasciarti lo spazio per poterla esplicitare, e se ti va corredarla di un qualche aneddoto.
Ermanno Lorenzoni, un grandissimo compagno. è stato un ferroviere, tra i fondatori del sindacalismo di base in Italia e sempre un dirigente. Ma in primo luogo un militante e un quadro del Partito Comunista dei Lavoratori. Io non ne ho mai fatto la conoscenza diretta, ma Lo Galbo, che ha vissuto a Bologna e lo ha conosciuto di persona, mi ha raccontato della sua dolcezza e pazienza infinita.
Lorenzoni, a detta di tutti, sapeva sempre essere coerente coi princìpi del marxismo rivoluzionario e al contempo ascoltare, integrare, riformulare. Ufficialmente pare che la morte non si debba al covid, ma la vicenda è oscura. Ma chi gli era vicino, afferma risolutamente di sì. Sappiamo che i reali numeri delle morti per covid sono stati contraffatti, ridotti sottobanco per nascondere il collasso totale a cui è ridotta la sanità pubblica. Qui mi fermo, detesto la dietrologia. Ma certo è stata una morte improvvisa, senza malattie pregresse, anticipata da tutti i sintomi del covid. Nel mondo ci sono due storie: una storia con la “s” maiuscola, composta da tutti gli orrifici e sanguinolenti pagliacci che ci governano e ci sfruttano, nani che pure giganteggiano sui giornali e sui manuali di storia. Poi c’è una storia sotterranea, popolata da uomini e donne quasi da fiaba come Ermanno a cui il futuro dovrà tutto. Il Vaticano non li canonizzerà e la storiografia borghese non li citerà . Dobbiamo ricordarli noi, che sappiamo quanto hanno dato e le fondamenta che hanno gettato con le loro lotte e la loro coerenza, e tenerli d’esempio. Scriveva Fortini “chi ha compagni non morirà “. Al pusillanime suonerà pure retorico. Io la trovo una grande verità .
E ora, quali sono i piani per l’estate? Vedi una fine, a questa notte scura? Lasciaci con una riflessione su quello che sta avvenendo al mondo dello spettacolo, che possa aiutare chi legge a capire tutto ciò che la cultura, oggi, sta attraversando. Anche se il Covid, per certi aspetti, altro non è stato che un’impietosa cartina tornasole.
La situazione che viviamo noi artisti è oramai drammatica da circa un anno. Come ho già detto altre volte, l’arte fa paura al potere e quindi hanno subito fermato i concerti, chiuso i teatri, i cinema, i musei.
Lo streaming sarà anche un mezzo comodo, ma suonare dal vivo è un’altra cosa, è la spina dorsale del nostro lavoro. Mi auguro che l’estate ci permetta di fare questi piccoli live, con pubblico ristretto e seguendo le norme anticovid. Bisognerà anche capire bene la questione del coprifuoco, che potrebbe influire parecchio sull’inizio dei concerti.
Il mio appello è quello di farci tornare a respirare con il miglior ossigeno di sempre: La musica.