Sia chiaro. Parto prevenuto scrivendo questa recensione. E parto anche col dirvi che probabilmente, molto probabilmente, vi incazzerete pure. Sì, perchè parlo di  Woody Allen  e della sua ultima, ennesima fatica cinematografica: “Rifkin’s Festival”. Prima, però, vorrei che cancellaste completamente tutti gli scandali sul regista (peraltro assolto, lo ripeterò fino alla morte) e vi concentraste solo sull’artista, perchè questo ultimo film è uno dei più belli. E sarà  anche l’ultimo.

Ora, partiamo col capire chi è  Rifkin e di quale festival si tratta. Il primo è il protagonista Mort  che, con sua moglie Sue, parte per il San Sebastian Film Festival, in Spagna. Il problema arriva già  nella prima scena quando proprio il marito, durante una normalissima e classica seduta psicoanalitica, confessa al suo dottore che pensa che la moglie lo stia tradendo. Il guaio, dice il paziente, è che i sospetti cadono sul cliente di  Sue, l’attore francese Philippe, di cui gestisce l’ufficio stampa e che sta proprio per presentare il suo ultimo film commerciale al festival spagnolo.

In verità  fino ad adesso la storia è pressochè la stessa degli ultimi film di  Allen: coppia sposata da anni, lui ipocondriaco e lei, invece, un’egoista megalomane. Uno dei due tradirà  l’altro e via. Direi che qua, per la trama, vi dovete accontentare.

La figata di questo film è che incarna, per l’ultima volta, l’essere, il regista, l’icona cinematografica (e via dicendo) di  Woody Allen. Effettivamente, oltre alle solite scenette che oramai tutti conosciamo, questo lungometraggio è un bellissimo omaggio al cinema che ha segnato (e insegnato) il regista. In effetti all’inizio nessuno ci fa caso, ma quando i sogni  (tutti in bianco e nero) di  Mort  Rifkin aumentano e gli attori all’interno, sempre di quei sogni, iniziano a parlare svedese allora capisci che sicuramente Bergman c’entra qualcosa.  E la bellezza di questo film è proprio nel gioco: scoprirli tutti.

Ma non finisce qua. Ci sono tantissimi riferimenti alla vita artistica del regista: tra frecciatine ad autobiografie uscite che non sono state accolte positivamente e riferimenti ai suoi luoghi preferiti del cuore, una frase su tutte che mi ha colpito (e sono sicuro si riferisca proprio a lui) è la seguente ovvero  mai giudicare un artista dalle sue intenzioni borghesi prima di averlo conosciuto.

Tristemente ammetto che, però, la mia paura ora è più fondata che mai. Il regista di “Io e Annie”, “Manhattan” e “Harry a Pezzi” probabilmente sta per lasciare la scena. E ci sta, sia chiaro. A 85 anni è anche ora, goditi la pensione gli consiglierei. Dall’altra parte sarà  triste non leggere più delle ennesime peripezie per fare uscire un’altra pellicola. Quello che posso dire ora, in questo preciso momento, è che come ultima opera io sono rimasto pienamente soddisfatto.  Allen ci ha lasciato un bellissimo ricordo del suo percorso cinematografico con un piccolo messaggio all’interno: andare sempre a vedere qualsiasi film che sia, commerciale e non.