è con grande piacere che ritroviamo Juliana Hatfield, di nuovo alle prese con del materiale originale dopo i due recenti album di cover dedicati a Olivia Newton-John e The Police. Le dieci canzoni di “Blood”, la sua diciannovesima fatica in studio, sono state registrate nei giorni più intensi e tragici della pandemia. L’ex bassista dei Lemonheads ci ha lavorato su in totale autonomia, rintanata nella sua abitazione in Massachusetts. Ad assisterla per consigli tecnici e arrangiamenti il collaboratore di fiducia, Jed Davis, in collegamento remoto dal Connecticut.

Un disco figlio di questi tempi tragici e deprimenti, che la cantautrice statunitense ha concepito ““ cito testualmente ““ come una reazione a quanto seriamente e negativamente molte persone siano state colpite dagli ultimi quattro anni, dominati ahinoi dai deliri di Donald Trump, da recrudescenze destrorse, da frequentissimi episodi di odio e intolleranza e, dulcis in fundo, da un’emergenza sanitaria globale gestita in maniera disastrosa.

Fonti di ansia, inquietudine e stress che danno forma a brani spesso abrasivi, ricchi di immagini violente (Someone’s gonna choke you out/ Someone’s gonna smash your teeth/ Someone’s gonna burn down your house, da “Chunks”) e suoni ruvidi (“The Shame Of Love”, “Had A Dream”). A questo lato grezzo di “Blood”, piccola eredità  dell’alternative rock di stampo “’90s, fa da contraltare la consueta vena melodica di Juliana Hatfield, la cui voce fragile ma sensuale riesce ancora a regalare emozioni.

Miele per le orecchie: sentirla cantare sulle soavi note delle splendide “Splinter” e “Torture” dà  immenso sollievo. La scelta di lasciare ampio spazio a sonorità  elettroniche e strumenti digitali, tuttavia, potrebbe far storcere (e non poco) il naso ai nostalgici di “Hey Babe” e “Only Everything”. Ma sono minuscole quisquilie che non inficiano in alcun modo la qualità  di un album assolutamente convincente. Un lavoro dalla spiccatissima natura lo-fi (per non dire casalinga) che, per l’ennesima volta, ci conferma il talento cristallino di un’artista estremamente sottovalutata.