è uscito finalmente l’album di debutto degli Easy Life, sicuramente uno dei più attesi dell’anno. Opinioni? Sicuramente positive, altrimenti non si sarebbe meritato un bell’otto e mezzo. Ho passato non poco tempo pensando a come descrivere questo disco, e penso che ci sia una situazione un po’ specifica che però esprime appieno quello che “life’s a beach” fa provare a chi lo ascolta.
Immaginate litigare furiosamente con una persona a cui si tiene molto, a prescindere dal rapporto da cui si è uniti. Una situazione sicuramente terribile, ma non è quello che ci interessa; pensate al momento in cui si prova ad avere una discussione con quella persona, per mettere fine alla vicenda e andare avanti con le proprie vite. Nulla è sicuro perchè il rapporto è cambiato in maniera radicale però la questione è chiusa, no? E quindi si entra in un misto dolceamaro di emozioni non ben definite, tra nostalgia di un legame ormai perduto, la paura di rimanere soli, la speranza di tornare come prima e il sollievo di aver finito una discussione così pesante. Ecco, questo mix sentimentale è esattamente ciò che ti lascia “life’s a beach”.
Questo disco è un flusso di coscienza che inizia con una pacca sulla spalla di autoincoraggiamento, un inno all’essere se stessi e a rimanere autentici in tutto ciò che si fa (“a message to myself”). Già da qui possiamo intuire quanto questi ragazzi di Leicester, specie Murray Matravers, abbiano scelto di mettersi alla prova e creare un disco il più onesto possibile ““ quella sincerità affascinante tipica dei dischi di debutto, che non dispiace mai vedere. Sincerità che poi trova il punto più alto nel brano finale, “music to walk home to”; un brano parlato nato dall’alcool, un ascolto intenso di Fela Kuti, un monologo pronunciato alle due di notte e tanto, sano divertimento.
Ci sono inoltre storie d’amore, di speranza, di nostalgia, di come bisogna imparare a vedere il lato positivo delle cose e aggrapparsi a quell’attimo di felicità . Un panorama sereno e rassicurante, in cui però non mancano momenti bui. Un po’ come quando sei a una festa, tutti sono ubriachi e tu sei in un angolino a chiederti il senso della tua vita. “Skeletons” parla di possibili passati terrificanti e incontri poco raccomandabili (nonostante sia la traccia più funk del disco), “living strange” è pura autodistruzione mista a paranoia.
Si sente il tocco di giganti della musica come Bekon (che ha lavorato su dischi decisamente insignificanti come “DAMN.” di Lamar, per dirne una) e Gianluca Buccellati. Ugualmente rilevanza hanno Emilia Ali e ancora di più Aretha Franklin, altre muse ispiratrici del disco; è sicuramente da notare il lavoro fatto su “ocean view”, (ripresa da “Loved the Ocean”) della Ali, ma non paragonabile a “daydream”. Presa da “Day Dreaming” della Franklin, il pezzo viene riproposto in chiave decisamente diversa rispetto all’originale, tant’è che serve un ascolto più attento per collegare i due brani. Non accade lo stesso con “ocean view”, che è molto più simile all’originale, praticamente una “Loved the Ocean” velocizzata con il cantato di Matravers sulla base ““ ma non per questo meno valida.
Che dire quindi di “life’s a beach”? è un disco sincero che mette in campo contrasti emotivi e sonori ““ dove però per “contrasti” non s’intende che stonino, assolutamente. Jazz, funk, alternative e RnB formano tutto sommato un’armonia imprevedibile e sicuramente non ripetitiva. Allo stesso modo, pur parlando di esperienze ed emozioni completamente diverse tra loro, c’è un filo logico tra le canzoni; il disco è un daydream, un sogno a occhi aperti per buona metà (seppur con sottotoni nostalgici), che però diventa lentamente un incubo (vi dice niente la traccia “nightmares”?). Ed ecco che entra in gioco il mix di emozioni di cui parlavo all’inizio, quello stato d’animo non ben definibile perchè ha tanto dietro; proprio come un granello di sabbia, ogni pensiero, ogni emozione nasconde in sè una storia che non sarà mai raccontata a dovere, perchè la vita è una spiaggia decisamente immensa.