Annunciato diversi mesi fa e anticipato da alcuni singoli che promettevano bene, finalmente ha visto la luce “Fatal Mistakes”, album degli scozzesi Del Amitri, capitanati da Justin Currie e Iain Harvie.

Un appuntamento che sul mercato discografico mancava da troppo tempo, ben diciannove anni sono intercorsi infatti tra questo nuovo lavoro e il precedente “Can You Do Me Good?”, anche se la reunion avvenuta nel 2014 con tanto di sold out in serie per tutto il Regno Unito aveva dato la spinta ai due di riallacciare solidi rapporti con il chitarrista Kris Dollimore e il batterista Ashley Soan – i quali entrambi erano stati in organico per un breve periodo tra gli anni novanta e l’inizio del nuovo millennio –   e con il tastierista storico Andy Alston.

Che quelle date potessero essere qualcosa di più di un estemporaneo entusiasmo dettato dal pubblico ritrovato, sempre fedele e appassionato, lo dimostra il fatto che da lì in poi i due leader hanno iniziato a comporre con il piglio e l’ispirazione dei giorni migliori.

Insomma, i presupposti per un rientro in grande stile, seppur misurato secondo loro attitudine, c’erano tutti e finalmente abbiamo tra le mani un disco che sembra rimandare magicamente ai due decenni topici dell’avventura artistica dei Nostri (gli eighties e i nineties), quando seppero raccogliere grossi consensi non solo in termini di culto ma proprio di vendite, con qualche hit disseminata qua e là  che non guasta mai.

Attenzione però a non scambiare per mestiere il fatto che sembra non sia passato un solo giorno dal loro scioglimento: è proprio il contrario, qui a farla da padrone sono l’assoluta naturalezza e la spontanea facilità  con cui Currie e soci riescono a estrarre dal cilindro ariosi brani pop rock, memori di una cura per le parole e per il suono, così minuzioso e solare da non nascondere discendenze con certo folk e un sound che sembra provenire direttamente dalla lontana (ma solo geograficamente) west coast.

Basta mettersi all’ascolto dell’opener “You Can’t Go Back” per venire assorbiti da una melodia rassicurante e orecchiabile che pare accarezzare dolcemente, nonostante si tratti di un’esortazione non proprio conciliante (un   sentimento opposto ci ritroviamo invece ora più che mai a nutrire noi nei loro confronti).

La seguente “All Hail Blind Love” è rivestita di gentili arpeggi elettrici, così semplici se vogliamo da aver fatto scuola, ma si sa che è sempre difficile superare il maestro, e la classe e la semplicità  con cui i Del Amitri confezionano simili tracce lascia stupiti a ogni ascolto.

Sono tredici le nuove canzoni del gruppo, e non riuscirete a trovare un solo riempitivo, e pure il fatto che manchi il cosiddetto pezzo forte, più che un punto debole sta a significare un elevato standard qualitativo.

Valore che si palesa mediante musiche al più cristalline e leggere, ma accompagnate da parole che al contrario mostrano tratti di vera inquietudine e tormento, nonostante ci si sforzi di appellarsi ancora al futuro con rinnovata fiducia.

Se proprio dovessi citare alcuni brani per far avvicinare i neofiti all’ascolto di questa band mai troppo celebrata per i suoi meriti, le mie scelte cadrebbero su “Close Your Eyes and Think of England” morbida e suggestiva ballad (già  apprezzata come singolo apripista del disco), una “Otherwise” che profuma di America e dei suoi grandi songwriters, la nervosa e intensa “I’m so Scared of Dying” e su “Nation of Caners” che chiude l’album col suo ritmo cadenzato e liriche desolatamente consapevoli, tra l’ironico e l’estremo realismo, su una società  nella quale non sembrano riconoscersi appieno.

Al di là  di giudizi per forza di cose soggettivi, vi consiglio caldamente di mettervi all’ascolto di questo album con il cuore leggero, perchè a volte i momenti migliori accadano proprio quando meno te li aspetti, cosicchè potreste ritrovarvi ammaliati e letteralmente conquistati da quello che si candida a figurare tra i migliori lavori del 2021.