Ci sono band che già  dal primo singolo ti guardano dall’alto, non per un ingiustificato e arrogante senso di superiorità  ma per un’effettiva dimostrazione di un potenziale artistico ancora tutto da esprimere ma già  evidente e palpabile. E’ quello che accadde con i The Lounge Society che avevamo subito segnalato sin dal loro primo singolo “Generation Game” (qui il Brand New).
La band proviene daHebden Bridge, piccolo centro nel West Yorkshire, situato in una valle denominata Calder in cui deve per forza esserci un’energia particolare, nata probabilmente negli anni passati, nello storico locale The Trades Club, dove si sino esibiti Patty Smith, Mark Lanegan, The Fall, Teenage Fanclub, The Orb, Nico, Thurston Moore, Slaves, Marc Almond, Donovan e molti altri. Questa energia deve vibrare ancora oggi con grande veemenza se altre band locali come The Orielles,  WH Lung  e Working Men’s Club si stanno facendo molto ben notare.

Archie Dewis, Cameron Davey, Hani Paskin-Hussain e Herbie May   sono i quattro ragazzi in questione, neppure ventenni ma che dimostrano una già  solida maturità : forse chi nasce in certe aree non metropolitane possiede una capacità  di critica maggiore dei coetanei cittadini, chissà , forse è il contatto diretto con la terra.

La opener “Burn The Heather” apre le danze (e non si fa per dire) del mini album con un bel basso funky che si appropria del ruolo di protagonista per tutta la durata del brano e che spiazza chi si aspettava un approccio più ruvido con chitarre taglienti in primo piano. Qui invece la chitarra è costretta ai suoi riff funky mentre il caratteristico spoken-word di Davey denuncia l’avidità  dei proprietari terrieri della zona che estirpano l’erica per poter cacciare facilmente il gallo cedrone ma causando in questo modo inondazioni nella valle.
Prodotto da Dan Carey (Fountaines D.C. per citare la prima band che ci colpisce) l’EP mantiene un’energia funky in “Television” che si incattivisce in progressioni e accelerazioni impetuose in poco più di due minuti di grande impatto.

Con “Cain’s Heresy” la band trova un groove che non può che scatenare anche i più bassi degli istinti con una deviazione psichedelica nel finale che stordisce i sopravvissuti mentre Davey se la prende con classi politiche e corporazioni.
Chiude i giochi “Valley Bottom Fever”, qui di atmosfere punk se ne respira parecchia, giriamo al largo dal palco se ci dovesse capitare di assistere a un loro live.
Questa band ha tanta rabbia dentro che fortunatamente riesce a espellere attaccando strumenti ad amplificatori o battendo forte sulle pelli. Bene, a noi tipi così piacciono parecchio e se la musica che fanno è di questi livelli non possiamo che innamorarcene.

Image credit: Piran Aston