Continua la collaborazione tra Aaron Dessner dei The National e Justin Vernon (Bon Iver) nei Big Red Machine, autori di un pregevole esordio (“Big Red Machine” del 2018) già  ricco di spunti musicali impreziositi negli anni seguenti da singoli estemporanei realizzati con Michael Stipe (“No Time for Love Like Now”) e altri artisti. Oggi i BRM sono un collettivo di menti e anime affini, che ruota attorno alla coppia Dessner ““ Vernon ma si arricchisce via via di voci sempre nuove. L’album numero due è un piccolo regalo di fine estate, periodo che ben si adatta al languore elettro ““ acustico di questi quindici brani.

“Latter Days” inizia col pianoforte, un fischiettio insistito e la splendida voce di Anaà¯s Mitchell che si fonde a quella di Vernon in un duetto che ha il sapore affettuoso di un abbraccio a lungo rimandato, melodie dolci che contagiano anche “Reese” in cui a farla a padrone è la voce del buon Justin su una base elettronica arricchita da tastiere e chitarra. Moltissimi gli ospiti e in nessun caso si ha la sensazione di una presenza forzata, per puro apparire, per saldare un debito o ottenere favori. Poteva diventare un derby quello tra Fleet Foxes & Anaà¯s Mitchell nella briosa “Phoenix” vs Ben Howard & This Is The Kit nell’altrettanto riuscita, dolcissima “June’s a River” invece non c’è animosità  nè invidia.

La presenza di Taylor Swift non è più una sorpresa dopo “folklore” ed “evermore”: in duetto con Vernon nella melodica “Birch” (prima voce lui, seconda lei) a parti invertite in “Renegade” con un tono più pop e anche qui tutto sembra molto naturale come il contributo di Ilsey (Juber) già  collaboratrice di Mark Ronson. Unico passo falso “Easy to Sabotage” (feat. Naeem) tentativo di crossover hip hop che francamente stona se paragonato al resto, piccolo errore comunque compensato dal calore quasi gospel di “Hutch” che schiera un parterre de roi: Vernon, Sharon Van Etten, Lisa Hannigan e Shara Nova dei My Brightest Diamond per un commovente brano omaggio a Scott Hutchison dei Frightened Rabbit.

C’e spazio anche per il fingerpicking di “The Ghost of Cincinnati”, il minimalismo di “Hoping Then”, il carillon ben orchestrato di “Magnolia” con Aaron alla voce e un piccolo atto d’amore fraterno (“Brycie” dedicata da un Dessner all’altro). L’esordio “Big Red Machine” sembrava a tratti un mixtape, una compilation di idee. Il fil rouge di questo secondo album invece è quasi sempre chiaro, brillante, un bel lavoro di squadra. “How Long Do You Think It’s Gonna Last?” si chiedono i Big Red Machine ed è una domanda che resta in sospeso, ma senza tensioni nè ansie “solo” gran belle canzoni e i sospiri autunnali di “8:22am” e “New Auburn”.