a cura di Valerio Lupi

Annunciato da due anni e fermato dalla pandemia, è precipitato nelle sale cinematografiche il meteorite “Dune” di Denis Villeneuve. Atteso dagli appassionati allo stesso modo e alla medesima intensità  dell’attesa del Messia da parte del popolo Fremen, il film del regista canadese punta ad imporsi come lungometraggio dell’anno. Seconda trasposizione cinematografica dell’opera letteraria nata dalla fantasia di Frank Herbert, molto probabilmente non rimarrà  l’ultima. “Dune” ha rappresentato per decenni la “steppa russa” dei grandi autori cinematografici mondiali. Jodorowsky rimase imbrigliato in un progetto talmente ambizioso da rimanere solo su disegno, Lynch riuscì ad andare oltre i copioni e a trasferirlo su pellicola, scendendo però a patti con i finanziatori che stravolsero la sua visione dell’universo “Dune”.
Il romanzo di Herbert non è una semplice saga fantascientifica dove alcune popolazioni tendono a farsi guerre intergalattiche, qui troviamo la metafora del mondo così come lo conosciamo noi. E’ proprio per questo motivo che l’opera è stata avvicinata nel tempo solo da registi che potremmo definire “autoriali”.
Due pianeti sono in guerra per il controllo di un terzo pianeta ricco di una materia prima fondamentale per l’economia dell’intero universo, “la spezia”. In questa guerra a sfondo capitalistico,   l’unico a fare un utilizzo equo e solidale della spezia è il popolo autoctono dei Fremen i quali attendono da sempre un Messia che liberi il loro pianeta una volta per tutte dagli occupanti stranieri. La storia della seconda metà  del ventesimo secolo è davanti ai nostri occhi. Villeneuve coglie questa visione politica del romanzo esaltandola con l’aiuto delle immagini spettacolari del pianeta Arrakis. E’ proprio la messa in scena che dona a questa nuova trasposizione del romanzo l’anima del film di fantascienza d’autore. Se non lo avesse già  fatto, girando il seguito di “Blade Runner”, ci verrebbe da dire che saremmo curiosi di vedere Villeneuve alle prese con una trasposizione cinematografica di una qualche novella di Philip K Dick, tanta è la sua capacità  di maneggiare abilmente la materia fantascientifica.
All’impatto visivo e politico, fondamentali per inalare il vero spirito villeneuviano che “Dune” sprigiona, si accompagna costantemente la colonna sonora di Hans Zimmer, presente in ogni scena così come spesso capita al compositore sin dai tempi del felice matrimonio artistico con Cristopher Nolan. A rendere mastodontico il progetto è anche la parata di star che il regista decide di far scendere in campo, una sfilata che comprende ogni tonalità  attoriale. Si va dalla diva Rampling, all’attore giovane puntato dagli autori Chalamet, il Brolin sempre cattivo (non ora) ed il Momoa commerciale e simpatico, il bravo Bardem ed il colosso Bautista di marveliana memoria. Molto presente Rebecca Ferguson moglie del duca (un Oscar Isaac su standard normali come sempre) e madre di Paul (il già  citato Chalamet).
Una menzione particolare va però ad un attore la cui grandezza non è mai stata pienamente riconosciuta (chissà  poi perchè), Stellan Skarsgard. La sua interpretazione del crudele Barone riporta alla memoria quella del colonnello Kurz di Marlon Brando. Almeno in due scene, nelle quali appare il personaggio più interessante del film, la citazione di “Apocalypse Now” non è neanche da cogliere ma è semplicemente lì davanti ai nostri occhi. E’ probabilmente un personaggio la cui ferocia rende centrale nella storia e non è un caso che sia proprio il Barone a pronunciare la frase più potente del film: “voglio profitto”.
Troveremmo alquanto riduttiva una formulazione numerica per giudicare quella che è a tutti gli effetti un’esperienza cinematografica.
Abbiamo visto ancora poco di un universo che Villeneuve ha ben fissato nella propria mente, diciamo però che questa opera va assolutamente vissuta all’interno di una sala cinematografica per godere appieno del sentimento “Dune”.
Citando Zendaya nell’ultima frase del film rivolgendosi al protagonista ma indirettamente, abbattendo in maniera metaforica la quarta parete, soprattutto a noi spettatori: “Questo è solo l’inizio”.