Che gli Injury Reserve (ad oggi Ritchie with a T e Parker Corey) fossero sottovalutati o, ancora peggio, completamente snobbati dal grande pubblico, lo sapevamo, non serviva, di certo, un altro disco per accertarcene e la loro forza di volontà , soprattutto in questo ultimo lavoro, è capace di colpire nel profondo delle nostre anime senza particolari difficoltà , poichè non tutti sarebbero capaci di rimettersi al lavoro dopo la perdita di un caro amico, prima ancora che di un collega: sto, ovviamente, parlando di Stepa J. Groggs, rapper prematuramente scomparso il 29 giugno dello scorso anno, alla giovane età di 32 anni, per cause che si è preferito non divulgare, lasciando increduli ed inconsolabili una moglie, quattro bambini e, appunto, gli amici di una vita. Forse, è proprio lui il collante di questa ultima fatica del collettivo di Tempe, Arizona, il vero motore che anima l’intera composizione, che genera la forza necessaria per andare avanti e per sorprendere ancora una volta i propri ascoltatori.
Sin dall’inizio della loro carriera, all’interno di quel ricco sottobosco che è la musica underground, gli Injury Reserve hanno spesso fatto parlare di loro, strappando, più che meritatamente, numerosi consensi a destra e a sinistra per la qualità delle loro produzioni e per la peculiarità del loro sound che, in questo capitolo in particolare, flirta decisamente con sonorità noise, trip-hop, free jazz e post-rock (non dimentichiamoci, d’altronde, delle loro curiose esibizioni dal vivo al fianco di band punk ed indie rock). Possiamo benissimo dire che, per una nicchia ristretta di ascoltatori, essi abbiano rappresentato una tra le massime espressioni di avanguardia artistica all’interno dell’immenso panorama hip hop, un luminoso faro di speranza in mezzo ad un mare di fotocopie che sembravano e che tuttora sembrano moltiplicarsi senza fine, un appiglio solido a cui aggrapparsi senza timore se non fosse che quello che sto per recensire potrebbe essere l’ultimo lavoro in studio del gruppo.
Ma lasciando le premesse da parte, “By the Time I Get to Phoenix” trova un suo struggente ordine nell’apparente caos che sembra comporlo, ancora più indecifrabile se sprovvisti di cuffie e di una bassa soglia dell’attenzione, elementi necessari per provare, almeno, a comprendere le liriche confuse, distorte, criptiche e, talvolta, poco scandite di Ritchie with a T che riassumono perfettamente il disagio di fondo che muove questo progetto, come nel caso di “Outside”, opening track che, in maniera piuttosto ansiogena, ci introduce a questo nuovo viaggio del terzetto di Tempe. L’intelligente uso del sampling, a opera delle sagge mani di Parker Corey, comincia già a farsi sentire dalla traccia successiva, “Superman That”, che, campionando la band rivelazione di questo 2021, Black Country, New Road, ci preparerà ad altrettanti campionamenti interessanti e degni di nota come, per esempio, i King Crimson in “Footwork In a Forest” o i The Fall in “Ground Zero” e “SS San Francisco” più avanti.
Le vere emozioni, però, cominceranno a partire dalla seconda parte del disco e, più precisamente, da “Top Picks For You”, un brano che, riflettendo su schemi ed algoritmi alla base, per esempio, delle piattaforme streaming, sottolineandone anche gli aspetti più inquietanti, finisce, quindi, per spogliarli di qualunque genere di carattere “simil-umano”. “Your pattern’s still in place, algorithm still in action” (“il tuo schema è ancora al suo posto, l’algoritmo ancora in azione“): è esattamente qui che viene riassunta in toto la follia di un algoritmo, appunto, che, seguendo con precisione impeccabile le indicazioni ricevute in fase di programmazione, continua ad operare senza sosta cercando di soddisfare i gusti di una persona morta, cui Ritchie fa intelligentemente riferimento, e che, quindi, non potrebbe più usufruire di quegli stessi servizi. Insomma, stiamo evidentemente parlando di un’autentica perla, da un punto di vista prettamente lirico, che sembra quasi divorarci dall’interno, aggiungendo solo ulteriori dubbi alle nostre già piuttosto precarie esistenze. Ma, per quanto riguarda le lacrime vere e proprie, invece, non dovremo fare altro che aspettare la straziante “Knees”, praticamente, monopolizzata dall’intensa strofa del compianto Groggs, il cui flow ci metterà di fronte alla sua tremenda dipendenza da alcol e non credo che serva aggiungere altro. “Bye Storm”, infine, cala il sipario con una delle migliori produzioni dell’intera opera, regalandoci una conclusione ideale che lascia con l’amaro in bocca, all’interno di un progetto che di dolce, d’altronde, possiede ben poco, con quel “it rains, it pours, but damn, it’s really pourin'” (“piove, diluvia ma, dannazione, sta diluviando per davvero”) che stende più facilmente di un destro di Mike Tyson, soprattutto se considerato tutto quello che questi ragazzi hanno dovuto affrontare negli ultimi due anni e stavo pensando che, dopotutto, alla fine di questi 40 minuti, qualche goccia, forse, potrebbe persino essere arrivata a noi.