è un ritorno in grande stile quello di Frank Carter e dei suoi Rattlesnakes, rimasti immobili per un anno abbondante a causa della pandemia ma oggi più attivi e indiavolati che mai. Con la quarta fatica intitolata “Sticky”, la band britannica sembra finalmente aver raggiunto la sua dimensione ideale. Dieci brani concentrati in appena ventotto minuti di rock ultra-energico ma assai patinato, privo di sbavature e tratti “selvatici” nonostante l’evidente parentela col punk più ruspante.
L’ex cantante dei Gallows, pur sfoggiando un look degno da avanzo di galera, è in realtà un uomo d’oro: nelle sue canzoni prende di mira le ingiustizie del mondo, la società patriarcale e la mascolinità tossica. E lo fa con il piglio aggressivo/incazzato di chi, dopo quasi due decenni di intensissima attività live, sa come tenere sempre altissima l’attenzione dell’ascoltatore.
Anche scendendo a compromessi: è il desiderio ““ oltre che la necessità ““ di esser passati alla radio a spingere il gruppo a tenere costantemente sotto controllo la propria furia, prediligendo i suoni compressi e le melodie orecchiabili che letteralmente esplodono nei ritornelli – tutti costruiti ad arte per essere “appiccicosi”, come suggerito dal titolo stesso dell’opera. Frank Carter e i Rattlesnakes fanno le facce da duri ma, sotto sotto, vogliono solo vendere una montagna di dischi e godersi il successo.
E che c’è di male? Anche perchè adesso, a differenza di quanto sentito nel recente passato, il quartetto è totalmente padrone del proprio mestiere e non fa passi falsi. I brani funzionano a meraviglia: la title track è una botta di pura adrenalina, così come lo sono anche “Cupid’s Arrow” e “Bang Bang”. “Take It To The Brink” flirta prepotentemente con il garage rock e, sul finale, mostra un inaspettato volto simil-hip hop. Tra le atmosfere sintetiche di “My Town”, in cui troviamo un ospite di assoluto prestigio come Joe Talbot (Idles), emerge invece una vena post-punk.
L’impressione generale è che i nostri si divertano un mondo a reinterpretare alla loro maniera le preziose lezioni apprese dai Royal Blood, dagli Arctic Monkeys e dai Queens Of The Stone Age. Il caratteristico sound ruvido ma moderno forgiato da Josh Homme viene imbottito di steroidi per ottenere il massimo impatto possibile, seppur a prevalere sia sempre quella volontà di non oltrepassare i limiti e tenere tutto all’interno degli stretti confini del radio-friendly.
Ma va benissimo così, perchè Frank Carter sa coinvolgere ed entusiasmare anche senza strafare o tradire la sua “trendiness”. L’unica vera e propria sorpresa dell’album la troviamo in chiusura ““ ma è una sorpresa davvero clamorosa, perchè riguarda Bobby Gillespie dei Primal Scream. La sua voce suadente colora di psichedelia le note di “Original Sin”, forse l’unica traccia del disco a non possedere le stimmate della potenziale hit insieme all’abrasiva “Rat Race”. Discorso opposto per “Go Get A Tattoo”, “Off With His Head” e “Cobra Queen”, che invece sembrano essere state scritte solo ed esclusivamente per fissarsi in testa sin dal primissimo ascolto. Maledetto Frank Carter, questa volta hai centrato il bersaglio. Chapeau.