#10) WEEZER
Ok Human
[ Atlantic / Crush ]
LEGGI LA RECENSIONE

Dopo parecchie battute a vuoto, gli Weezer abbassano sorprendentemente le manopole dei volumi per tuffarsi in un pop orchestrale di gran classe, che rieleva le quotazioni di uno dei gruppi storici degli anni “’90 americani. La delicata emotività  che fa impennare “Numbers” è il mio passaggio preferito, ma anche le sardoniche “Grapes of Wrath” e “Aloo Gobi” non falliscono nel tentativo di legare il loro power-pop classico con questa imprevedibile versione per archi e piano.

#9) GODSPEED YOU! BLACK EMPEROR
G_d’s Pee AT STATE’S END!
[ Constellation Records ]
LEGGI LA RECENSIONE

L’ottavo album dei canadesi riporta indietro le lancette allo scavallare del millennio, quando i GY!BE erano tra i nomi di grido del panorama rock underground. Se capolavori come “F♯A♯∞” e “Lift Yr. Skinny Fists Like Antennas to Heaven!” sono ovviamente inarrivabili, “G_d’s Pee AT STATE’S END!” è una gradevole reimmersione in quel post-rock strumentale, spezzato da maelstrom di distorsioni e corde di violino fluttuanti, che hanno inventato e diffuso in ogni angolo del globo. Dopo un paio di prove sottotono, è anche questo un apprezzato ritorno.

#8) WAR ON DRUGS
I Don’t Live Here Anymore
[ Atlantic ]
LEGGI LA RECENSIONE

Gli War on Drugs raramente sbagliano album, anche se manca sempre quel guizzo, quella canzone che si faccia ricordare. Ci erano forse riusciti con “Lost In the Dream“, che partiva alla grande (ma poi si perdeva un po’). Ma anche “I Don’t Live Here Anymore”, estremamente coeso, non manca di regalarci quella poetica a cui Adam Granduciel ci ha abituato fin dagli esordi.

#7) LOW
HEY WHAT
[ Sub Pop ]
LEGGI LA RECENSIONE

I Low sono ormai una delle istituzioni del rock indipendente contemporaneo. Anche se il meglio lo hanno conseguito agli inizi (per me “I Could Live in Hope”, esordio del 1994, resta un gioiello impareggiabile), in quest’ultimo decennio i Nostri sono stati protagonisti di uno dei più inopinati comeback della storia recente (assieme agli Swans). Se già  “Ones and Sixes” integrava l’elettronica nel loro slowcore meditativo, con “Double Negative” e questo “HEY WHAT” il duo di Duluth conia una nuova forma di pop sperimentale dalle tinte post-industriali, pur senza rinunciare a quell’aura di religiosità  che li ha resi dei maestri del genere che hanno contribuito a codificare.

#6) PARANNOUL
To See the Next Part of the Dream
[ Autoprodotto ]
LEGGI LA RECENSIONE

Maledetti coreani! Dalla propria cameretta, un ignoto ragazzo (forse) si inventa uno shoegaze traboccante di riferimenti emo (ma sarebbe meglio dire hikikomori) che starebbe bene come trailer ad un anime per adolescenti. Le fragorose esplosioni di questi manifesti esistenziali sono talmente naà¯f che è forse un bene non capire un’acca dei testi, e un’ora di ascolto vi si può dedicare solo per disperazione… ma se mi immaginassi ventenne o poco più, in un mondo chiuso in scatola come quello odierno, lo so, lo ammetto, lo avrei amato alla follia.

#5) JAPANESE BREAKFAST
Jubilee
[ Dead Oceans ]
LEGGI LA RECENSIONE

Il terzo album di Japanese Breakfast è una delle sorprese più piacevoli di questo 2021: “Be Sweet” potrebbe essere un classico synthpop anni “’80, l’indie danzante di “Slide Tackle” racchiude in sè il meglio del pop sofisticato di quegli anni. La cura negli arrangiamenti si scosta dalla produzione lo-fi di “Psychopomp” e segna un ulteriore passo avanti rispetto al già  buono “Soft Sounds from Another Planet“. Le atmosfere rarefatte trattengono il lato dreamy che l’hanno fatta conoscere. Dalla dolce e birichina Michelle Zauner ci attendiamo adesso il salto di qualità  decisivo.

#4) BLACK MIDI
Cavalcade
[ Rough Trade ]
LEGGI LA RECENSIONE

Dopo l’incubo dissonante di “Schlagenheim” (2019), i black midi spiazzano tutti con questa confusionaria raccolta di noise-jazz, math-rock e progressive d’avanguardia, non dissimile da ciò che tentarono di fare ormai più di trent’anni fa i Blind Idiot God. Album particolarmente divisivo, è però una manna per definire ulteriormente, almeno come attitudine all’innovazione e alla commistione, quel “neo-post-punk” che sta fiorendo oltremanica.

#3) SQUID
Bright Green Field
[ Warp ]
LEGGI LA RECENSIONE

Se si parla di nuovo post-punk, allora i più aderenti agli originali sono gli Squid da Brighton, che infilano Gang of Four, Talking Heads e This Heat in un calderone che pesca a piene mani anche dal krautrock tedesco (NEU! su tutti). Ne escono almeno due potenziali classici, il delirante duetto di “Narrator” e la galoppata isterica di “Pamphlets”, circondati da un pugno di brani a corollario. Avanti col secondo, vi aspettiamo al varco.

#2) BLACK COUNTRY, NEW ROAD
For the First Time
[ Ninja Tune ]
LEGGI LA RECENSIONE

Fra tutta la scena inglese uscita in massa allo scoperto nel 2021 (mancherebbero anche Shame e Idles: discreti i primi, in fase involutiva i secondi), il mio disco preferito è quello dei Black Country, New Road. La loro versione si discosta da black midi e Squid per concentrarsi a piene mani sul post-rock dichiaratamente a marca Slint. Sei brevi brani, perlopiù già  usciti su singolo, dimostrano da un lato organicità  e senso della misura, dall’altro un pizzico di mancanza di coraggio. Ma, signore e signori, che classe!!

#1) SWEET TRIP
A Tiny House, In Secret Speeches, Polar Equals
[ Darla Records ]
LEGGI LA RECENSIONE

Sconosciuti ai più, scovai gli Sweet Trip per caso su internet (come il 99% dei disgraziati che li conoscono). Me ne innamorai in pochi istanti. Non mi sarei però mai aspettato di recensire il loro ritorno sulle scene, questo colosso di oltre un’ora che impacchetta e perfeziona il loro peculiare shoegaze elettronico in un ambito perfino più addomesticato e fruibile. Dispersivo e supponente, ma efficacissimo come teaser alla loro opera, lo consiglio a chiunque abbia voglia di stendersi su un divano e lasciarsi cullare in un appassionato e”… dolce viaggio.