Con l’inizio del 2022 arriva la seconda uscita post-reunion degli Underoath, tra i principali esponenti di quella scena emo che, una quindicina di anni fa, conquistò i cuori di tanti giovanissimi con un mix ben confezionato a base di screamo, post-hardcore e pop punk. Sembra davvero esser trascorsa una vita dal periodo di maggior successo del sestetto statunitense che oggi, riposti gli eyeliner, le frange e le ispirazioni cristiane in un cassetto, prova a lasciarsi definitivamente il passato alle spalle con un album dal gusto ultramoderno che si intitola “Voyeurist”.
Un’autoproduzione dal sound definito, violento e di grande impatto, in cui gli Underoath approfondiscono tutto il potenziale di un metalcore addolcito dalla melodia, contaminato dall’elettronica ma dal volto sempre e costantemente incazzato. L’ago della bilancia, nonostante la presenza massiccia di ritornelli orecchiabili e persino di qualche hook che non sfigurerebbe nelle hit da alta classifica (vedi “Hallelujah”), pende in maniera prepotente verso la pesantezza. Il che è da intendersi come un assoluto punto di merito per Spencer Chamberlain e compagni, veri e propri maestri nell’accontentare le esigenze degli amanti dell’headbanging selvaggio.
I numeri da pogo assassino sono tanti e variegati, tutti contraddistinti da dinamiche e “abbellimenti” sintetici capaci di rendere ancor più stimolante la proposta degli Underoath. Brani come “Damn Excuses”, “I’m Pretty Sure I’m Out Of Luck And Have No Friends”, “Take A Breath”, “We’re All Gonna Die” e “Cycle” (col featuring di Ghostemane, idolo della cosiddetta trap metal) sono cazzotti in faccia che incassiamo assai volentieri.
La band, quando si tratta di menar le mani, non si tira di certo mai indietro. Eppure, nonostante le facce da cattivi, i sei ex ragazzi della Florida continuano a coltivare aspirazioni da stadio. Quando le acque si calmano e il microfono passa nelle mani di Aaron Gillespie, voce pulita oltre che batterista, gli Underoath si scoprono interpreti di un alt rock da radio figlio del nu metal più elettronico/industrial.
Le antiche sirene mainstream tornano a echeggiare in lontananza nelle note di “Thorn”, “Numb” e “Pneumonia”, dove si colgono in maniera abbastanza palese le influenze di Linkin Park, Deftones e degli ultimi Bring Me The Horizon. Un difetto? No di certo: tirando le somme, tuttavia, “Voyeurist” va meglio quando ci va giù duro pesante. Anche se, a onor del vero, la produzione è sempre molto attenta a smussare gli spigoli del metalcore.
Nel complesso il giudizio sull’opera è positivo ““ ma resta da capire quale strada imboccheranno i nostri nel futuro. Io personalmente spero in una ferocissima svolta post-hardcore, in modo tale da spazzar via definitivamente la vecchia patina christian metal.
Credit Foto: Dan Newman