Ricordo bene il momento in cui decretai, sopratutto a me stesso, che i Mansun erano ufficialmente il mio gruppo preferito: fu quando appesi il poster gigante di “Attack Of The Grey Lantern” proprio sopra il mio letto. Quella era la posizione simbolo nella mia camera. Da li era passata gente come Madonna, Metallica, Oasis, Blur, Morbid Angel (pure loro!) e Smashing Pumpkins (solo per citare qualche nome), ma nel marzo 1997 era il momento dei Mansun e io mi sentivo un dio ad avere quel tripudio di rose blu e viola sopra la mia testa. Paul Draper vegliava sul mio sonno.

Li avevo conosciuti sulle pagine di Rockerilla, i Mansun: la premiata ditta Costmagna/Villa, negli anni d’oro del britpop, sfornava nomi in continuazione e io e il mio buon amico Claudio eravamo li, indaffarati a prendere appunti, a telefonare a Supporti Fonografici, a cercare un po’ di dischi in quel di Verona (dove studiavamo entrambi) e a sentire il più possibile tutte questa band sulle frequenze della BBC. Era una battaglia. La nostra missione era scovare ogni volta un gruppo nuovo di cui innamorarsi e per cui perdere la testa. Io poi, beh, non ne parliamo: idoli nuovi ogni settimana. Qualcuno durava poco, pochissimo, altri seppero resistere di più e diventare parte integrante delle mie giornate per lungo tempo. I Mansun rientrarono in quella categoria. La marcia di avvicinamento al disco fu magnifica, quasi trionfale. Ogni brano nuovo di questi ragazzi mi sembrava irreale, emozionante e capace di conquistarmi fin dalla prima nota. Ho sempre amato fare “air guitar”, io non suono la chitarra ma fantasticare di essere questo o quel chitarrista mi ha sempre affascinato, ma con i Mansun no, immaginavo di essere Paul Draper. Lo vedevo nelle fotografie così bello, carismatico e capace di tutto: chi potevo essere se non lui? Con questo finto microfono in mano mi credevo lui sul palco, impegnato a cantare “Egg Shaped Fred” o “Take It Easy Chicken”. Numeri da circo nel mio salotto se ci ripenso adesso. Nel 1996 c’erano anche altri eroi che riempivano i miei ascolti, era inevitabile, eppure, fra i tanti gruppi, i Mansun erano spesso citati anche dai miei amici “britpoppettari” e, ogni volta, non si perdeva occasione di lodarli, insomma erano dei predestinati.

Il colpo da 10 e lode arrivò a inizio 1997. L’album era imminente e poco prima della sua uscita i Mansun fecero uscire, a febbraio, il singolo “She Makes My Nose Bleed” e da li fu schiavitù totale. Il brano mi colpì a tal punto che, tutt’oggi lo reputo uno dei pezzi migliori della band e sopratutto rese l’attesa per quell’esordio quasi insostenibile. Ogni giorno passavo da Pentagramma e Diesis, i miei negozi musicali veronesi preferiti, nella speranza di trovare quel CD e a tutti citavo questi benedetti Mansun, suscitando per lo più facce perplesse. Ma alla fine arrivò il giorno e quel poster che stava nel negozio di dischi doveva essere mio. Così comperando il CD chiesi anche se potevo avere quella copertina ingrandita in cui capeggiava il nome Mansun: sapevo già  che il posto più ambito della mia camera stava per trovare un nuovo padrone.

Il primo ascolto non lo dimenticherò mai. Pelle d’oca. Quegli archi trionfali che aprivano il disco e intanto i miei occhi che venivano rapiti dalle immagini all’interno dell’album: quella di loro vestiti da preti che facevano il medio fu un pugno in faccia. Arrivato a “Taxloss” persi il lume della ragione. Dizionario alla mano cercavo di tradurre i testi e ne restavo sbalordito e intanto quello che sentivano le mie orecchie era paradiso in musica: un tripudio di suoni così rigogliosi e incontenibili. Mi ricordo che quando passavano i brani che già  avevo sentito smettevo di guardare i testi, mi alzavo in piedi e facevo l’invasato (perchè, diciamocelo, i singoli di questo disco sono pazzeschi, punto e basta). Arrivato a “Dark Mavis” ero senza fiato e senza forze, esaltato e ci mancava poco che mi mettessi a piangere dalla gioia.

Quel disco rimase a lungo sul mio lettore. Cambiavano i CD ma alla fine tornavo sempre li, da Paul Draper e soci. Non riuscivo a farne a meno. Cercavo pure di coinvolgere mia madre e mio padre per ascolti comunitari, ma devo dire che non trovavo grandi consensi. Credo che basterebbe questo a far capire quanto ho amato i Mansun. Quando vorresti che pure tua madre esprimesse la sua gioia verso una band che ascolti, beh, quello è vero amore”.

Morale della favola?”…Beh, è di fronte a dischi così che si può esclamare “CAPOLAVORO TOTALE” (in maiuscolo!). Non credo di poter trovare altre parole per esprimere l’immensa esplosione di suoni, colori, immagini, riverberi, riferimenti che i Mansun crearono in questo album d’esordio. Così ricco che a risentirlo adesso ancora si scoprono cose nuove. Oggigiorno c’è gente che straparla, definendosi influenzata dagli anni ’80. Ascoltate questo disco, poi capirete veramente cosa vuol dire “essere influenzati dagli anni ’80“!

Ridondanti, sinfonici, epici, romantici, aggressivi, oscuri, ballabili, visionari, malinconici, iper melodici, pensierosi”…tutto e il contrario di tutto. Un disco immenso.

Pubblicazione: 17 febbraio 1997
Durata: 62:13
Genere: Rock alternativo, Rock progressivo
Etichetta: Parlophone

Tracklist:

The Chad Who Loved Me
Mansun’s Only Love Song
Taxloss
You, Who Do You Hate?
Wide Open Space
Stripper Vicar
Disgusting
She Makes My Nose Bleed
Naked Twister
Egg Shaped Fred
Dark Mavis
An Open Letter to the Lyrical Trainspotter